Al centro della via e molto in alto
La storia della colonna di Nelson, ormai scomparsa, e dei suoi miseri resti. Di ciò che è stata una presenza ingombrante per la sua mole e per il peso del suo valore simbolico
Una breve premessa per chi Dublino non la conosce, o l'ha conosciuta per pochi giorni, spero divertenti. La storia della città è molto meno lunga e articolata di altre capitali europee. Tuttavia ogni tappa della sua crescita e del suo sviluppo può aprirsi al racconto di eventi e fenomeni ricchi di dettagli e situazioni peculiari che meritano un approfondimento. Le pagine che seguono sono dedicate ad un singolo monumento ora scomparso, ad una via centrale dove era collocato e ai due secoli della città durante i quali tutte le vicende connesse si sviluppano. E ovviamente toccano, o meglio si intrecciano ad alcuni aspetti della storia e della cultura irlandese. Ho preferito dare per scontati alcuni riferimenti al contesto politico perché li immagino abbastanza noti (ad esempio che l'Irlanda fosse un dominio inglese, solo per dire il più rilevante). Ho poi accennato ad eventi drammatici senza soffermarmi a descriverli più di quanto fosse utile al racconto (l'insurrezione di Pasqua del 1916), per non portare l'attenzione lontano dal cuore della narrazione. E così anche quando ho citato [spoiler] l'Ulisse di Joyce mi sono posto come se di quest'opera citatissima e pochissimo letta fosse condivisa dai più almeno una nozione generale e più che sufficiente per non perdere il senso del discorso. Diciamo poi che anche sulla topografia ho evitato un'approccio troppo didascalico, del resto non mi pare sia necessario dilungarsi a fornire coordinate che non essendo essenziali al racconto rischiano di confondere anziché chiarire. Qui però trovate il dettaglio di una mappa del 1837 che può tornare utile per orientarsi un poco: al centro, a nord del fiume, c'è una via colorata di arancione, in cui si nota la scritta "Post Office", questa è Sackville Street, il palcoscenico di buona parte di tutta la storia. E questo è un colpo d'occhio più ampio sulla città dalla stessa mappa, sufficiente per avere un'idea della sua estensione quando gli abitanti erano quasi 200.000, cinque volte meno di oggi. Spero non ci siano altri riferimenti oscuri o troppo specifici a minare l'esperienza della lettura. Nel caso segnalatemi ogni criticità. Sono tuttavia abbastanza convinto che anche chi non ha alcuna esperienza della città, attraverso questa piccola finestra possa dare un'occhiata da vicino a una Dublino poco conosciuta pure da chi in quei luoghi c'è stato decine di volte (o ci vive...). E se vi piacciono questi contenuti, o altri in cui vi siete imbattuti tra le pieghe del sito, iscrivetevi. Manderò un aggiornamento telegrafico ad ogni nuova storia (e ciò accadrà circa una volta al mese).
Nell’atrio della Pearse Street Library mi fermo indeciso sul prossimo passo, quello decisivo. Ne ho fatti molti in passato prima di capire che dovevo venire qui. Certo avrei dovuto cercare meglio, ma questa inaccuratezza ha avuto una conseguenza particolare. In questo arco di tempo lungo quasi due decenni l’oggetto della mia ricerca è parso sfuggente, e dunque ancora più desiderabile.
Sono riuscito anche a convincermi di aver vissuto una sorta di ribaltamento: la circostanza che io avessi girato a vuoto per Dublino era la condizione dell’oggetto raccontata dalla sua storia recente, quando era stato spostato da un punto all’altro della città, e anche più lontano, senza trovare una collocazione stabile.
Ora, a dirla tutta, sulla soglia di questa biblioteca pubblica a due passi dal Trinity College sarei potuto arrivare in qualsiasi momento negli anni scorsi, se solo ci avessi pensato prima. Per qualche però anno mi ero accontentato di sbirciare attraverso le finestre luride di quello che era stato il Dublin Civic Museum in South William Street. Abbastanza da convincermi che avrebbe riaperto. Perché come fa una città come Dublino a non avere un suo museo civico? E ciò che cercavo, accidenti, in quale altro posto poteva stare se non lì?
Adesso che finalmente sono nel posto giusto e sono pure in orario di apertura, non so quale delle tre porte varcare. Non il più difficile dei passi, devo riconoscerlo. Ma l’esitazione che mi frena ha radici più profonde. Nasce dal timore che non mi facciano accedere alla sala di lettura dove so che devo andare. Penso che mi manchi un’autorizzazione, una lettera di presentazione, l’iscrizione universitaria, che insomma un qualche impedimento renda il mio interesse non soddisfabile.
Ma un inserviente della biblioteca compare veloce, sorride e nota al volo il mio impasse e senza esitazione mi chiede se mi può essere d’aiuto. Certo, penso. E poi a ruota libera aggiungo che in fondo sono un legittimo utente di una biblioteca pubblica, che non ho pretese assurde e in fondo mi bastano pochi minuti.
In realtà continuo a pensare che non ce la farò.
“So che qui avete la testa di Nelson.”
“Certo, è qui sopra” risponde gioviale.
“Potrei vederla e fare una foto?”
“Sicuro, vi faccio strada.”
E così seguo quest’uomo su due rampe di scale in legno. Una volta al piano mi indica l’angolo in fondo a destra, mi sussurra con cortesia che sono tenuto a non disturbare e poi mi porta davanti al piedistallo. Mentre mi avvicino con l’emozione di un incontro atteso da una vita (non è così, ma l’emozione distorce il tempo come un buco nero), il bibliotecario mi porge una cartelletta piena di fotocopie di articoli di giornale e mi invita a sedermi e a fare le foto.
Osservo questa scultura di pietra alta un metro, tra gli scaffali e una finestra da cui entra una luce che accentua i chiaroscuri delle sue forme. Del ritratto dell’ammiraglio non saprei riconoscere niente, perché quello che si vede ha più l’aspetto di un reperto archeologico di una civiltà sconosciuta. Ma non è il tempo ad averla conciata così, bensì una carica di dinamite che ha demolito il monumento su cui si ergeva la statua di quattro metri a cui la testa apparteneva, facendola schiantare al suolo quasi sessanta anni fa.
Il monumento era l’allora celebre Nelson’s Pillar, noto anche semplicemente come The Pillar, eretto sull’onda dell’entusiasmo per la vittoria di Trafalgar Square del 1805. L’entusiasmo, va detto, di un gruppo di persone piuttosto ristretto ma assai influente. A lanciare l’idea erano stati infatti il sindaco e i membri del consiglio municipale. Ne era nato un comitato che aveva promosso una sottoscrizione pubblica per raccogliere i fondi necessari. Aveva risposto un certo numero di figure illustri e abbienti, tra cui Arthur Guinness, nipote del fondatore del birrificio, e vari esponenti della classe imprenditoriale che avevano solo da festeggiare per la vittoria di Nelson. La sconfitta della flotta francese aveva infatti tolto di mezzo un ostacolo che le navi irlandesi e inglesi trovavano sulle rotte commerciali. Non solo concorrenza, ma anche attacchi ai mercantili e blocchi dei porti. Per non contare le navi corsare, imbarcazioni private che con l’ autorizzazione del governo francese depredavano i navigli nemici. Ma non era solo una questione di commerci, perché se questo grande scontro navale è definito epocale è dovuto al fatto che segna la fine delle battaglie napoleoniche e con esse la minaccia di invasione delle isole britanniche che l’imperatore francese pianificava già dal 1803.
Per dirla con lo storico Jan Morris, che ha studiato l’impatto di quella battaglia durante tutto il XIX secolo, dopo quella vittoria “la flotta britannica è stata riconosciuta come arbitro ultimo degli affari del mondo”.
Il predominio navale inglese era dunque iniziato dopo Trafalgar, ma nell’immediata reazione successiva alla battaglia tale potere sui commerci marittimi restava ancora soltanto un’opportunità da cogliere. Ma è in questo contesto, sospeso tra emotività e calcolo, che si sviluppò quell’euforia che ha spinto a vedere nell’ammiraglio Horatio Nelson un eroe il cui valore andava ben oltre i meriti militari. E dunque a non perdere tempo a concepire un degno monumento che lo celebrasse e ne rendesse duratura la memoria a tutti.
Il fatto che tra i finanziatori si siano contati cattolici e protestanti era un questione in parte dovuta a motivi opportunistici e in qualche caso ad un sentimento sinceramente filobritannico. Difficile non pensare che si volesse cogliere l’occasione di mostrare fedeltà all'Impero, quando solo cinque anni prima nelle strade di Dublino si aveva assistito a un tentativo di rivoluzione (definito disastroso dagli storici), quella sostenuta e capitanata da Robert Emmett, fratello di Thomas che nel 1798 era stato uno dei leader di un’altra e ben più vasta e sanguinosa ribellione. Va considerato inoltre che il clima politico irlandese era diventato particolarmente acceso tra questi due episodi violenti, con la promulgazione dell’Act of Union che prevedeva lo scioglimento del parlamento irlandese a Dublino e il trasferimento di tutta la rappresentanza politica al parlamento di Westminster a Londra.
Proclamare di voler erigere un monumento a Nelson era in tutta evidenza un gesto politico con il quale si piantava nel cuore della capitale irlandese un simbolo della forza dell’impero britannico. Sul quale in un certo senso si confidava che per i profitti generati negli anni a venire, tale forza si sarebbe dimostrata sempre più potente e incrollabile.
Una volta ultimato the Pillar si presentò come una colonna dorica innalzata su un basamento quadrato, impreziosito da pannelli sui quattro lati che recavano incise le principali vittorie dell’ammiraglio. Il lato che guardava a sud, verso il Carlisle bridge, ricordava la sua ultima battaglia. La particolarità del monumento era che la colonna era abbastanza ampia da ospitare al suo interno una scala a chiocciola. Oltrepassato infatti il cancelletto della porta d’ingresso posta sempre sul lato "Trafalgar", 166 gradini (qualcuno dice 168) portavano ad una piattaforma rettangolare che si apriva attorno al basamento della statua.

Come è noto poi la storia ha mutato il suo corso e il legame con il Regno Unito è stato messo in discussione e contrastato in modo sempre più articolato. Anche se per ristabilire la sovranità irlandese sarebbe dovuto trascorrere oltre un secolo.
Ma che il vento avesse cominciato a cambiare era percepibile già a cavallo della Grande Carestia, che peraltro è un enorme capitolo a sé. Nel 1847 muore Daniel O’Connell, The liberator, colui che si era battuto contro la discriminazione della popolazione cattolica. Dunque contro quel sistema di leggi, chiamate Penal Laws, che impedivano alla maggioranza cattolica di avere rappresentanti al parlamento di Westminster, l’accesso alle più importanti cariche pubbliche (come giudici e sindaci) e anche ai gradi più alti dell’esercito. Ma a queste discriminazioni politiche e civili si aggiungevano quelle economiche, con le quali si cercava di impoverire la società irlandese, ad esempio con restrizioni sulla durata dei contratti di affitto della terra e l’imposizione del pagamento di decime al clero anglicano. La stessa chiesa cattolica aveva subito l'allontanamento dal suolo irlandese dei vescovi e il bando degli ordini religiosi. I sacerdoti che celebravano lo facevano in chiese nascoste o in segreto o in luoghi aperti. E osteggiati erano i matrimoni misti. E se celebrati da un prete cattolico non erano ritenuti validi.
O’Connell, avvocato prima che politico, aveva ottenuto nel 1829, attraverso il Roman Catholic relief Act, importanti risultati nella rimozione di alcune delle barriere più significative, tra cui quella che impediva di sedere in parlamento. Ma O’Connell ha avuto anche il merito di essere stato il leader di un movimento di massa, fortemente anti violento, che dunque aborriva i metodi rivoluzionari. Anche se le centinaia di migliaia di persone che sostenevano i suoi sforzi hanno segnato un precedente che purtroppo non è servito per evitare il bagno di sangue tra il 1916 e il 1923 e che ha accompagnato l’istituzione dello Stato libero d’Irlanda.
Ma alla sua morte la fama di O’Connell era tale che subito si è pensato di onorarlo con un monumento. Non si era ancora pensato a quale, ma che fosse più imponente di quello dedicato a Nelson era il presupposto irrinunciabile. Ci sono voluti parecchi decenni per completarlo e quello che è stato svelato nel 1882 non è più grande della colonna dell’ammiraglio (12 metri l’altezza complessiva), ma certo è più solenne e monumentale, in un senso che rinuncia allo slancio fallico a favore di un gusto compositivo articolato. La statua in bronzo del grande uomo, avvolto da un mantello e con un piede vicino ad una pila di libri, si erge su un piedistallo circolare, il tamburo sottostante reca un fregio con una fila serrata di una trentina di persone che rappresentano sia le categorie che hanno beneficiato delle lotte intraprese dall’uomo, che le folle che l’hanno sostenuto. Ad unire il loro movimento circolare c’è il corpo slanciato di Erin, la personificazione dell’Irlanda, con le catene spezzate ai piedi, una mano che regge l’atto giuridico del 1829 e l’altra alzata ad indicare Il Liberatore. A completare il quadro di figure allegoriche, sulla base, sedute sopra un blocco di granito di Dalkey da due tonnellate, ci sono quattro vittorie alate a rappresentare le virtù di O’Connell: patriottismo, fedeltà, coraggio ed eloquenza (di cui si può apprezzare il profilo nella foto di copertina).
Tutto questo per dire che essere arrivati a destinare un monumento comunque imponente e costoso ad un uomo irlandese (o non inglese), e che aveva speso una vita per la causa nazionalista, è stato un fatto che ha segnato una svolta. O forse, sarebbe meglio dire, che indica che una svolta era già stata intrapresa dalla società irlandese: finanziato dalla borghesia cattolica, dunque da una classe sociale che aveva accresciuto il potere politico ed economico, il monumento nasce negli anni in cui Charles Stewart Parnell si batteva per l’autogoverno e si riconosceva proprio nell’operato di O’Connell, di cui si considerava l’erede. Entrambi i leader nazionalisti avevano seguito una politica che cercava vittorie attraverso la via parlamentare, non le rivolte sanguinose.
La posizione stessa del monumento ha in sé il sapore di una rivalsa. E’ posizionato in un punto nevralgico della città, lì dove Sackville Street sfocia sul principale ponte che attraversa il Liffey e che dopo l’inaugurazione del monumento e un ampliamento alle dimensione attuali, non sarà più chiamato Carlile Bridge, ma per l’appunto O’Connell Bridge (per il cambio di nome della via occorrerà aspettare l’ufficialità nel 1924). E’ un monumento che non svetta sopra a tutto e a tutti come quello dell’ammiraglio, che pare in posizione per osservare il nemico all’orizzonte e cerca di controllare i domini della corona. Daniel O’Connell si piazza all’ingresso della via per chi viene da da sud, dalla parte più antica della città, e accoglie chi transita verso quella che per ancora molti decenni sarà considerata la strada più bella oltre che la più trafficata della città. Nonostante la sua imponenza non mette in ombra Nelson, ma col suo carico di significati, allegorici e simbolici, gli ruba un po’ la scena.
La colonna rimarrà tuttavia principalmente un punto di riferimento per cittadini e turisti. “Davanti” o “dietro” erano le indicazioni date per trovare questo o quel negozio. Come del resto facevano le pubblicità delle attività aperte lungo la via. Da lì partivano alcune linee del tram e di bus.
Non mancavano certo i suoi detrattori. C’era infatti chi per ragioni estetiche lo criticava e c’erano altri che lamentavano il suo ingombro che tagliava in due la via, ostacolava la vista sui palazzi, e dunque ne proponevano quantomeno lo spostamento in altro luogo. E poi, indubbiamente, c’erano i sostenitori della sua rimozione, a causa dell’inopportunità che un simbolo dell’imperialismo britannico si ergesse nel cuore della città. Tutte voci che non ottennero considerazione alcuna.
Intanto la via si arricchiva di un altro monumento imponente, quello dedicato a Parnell, gloria nazionale morta vent’anni prima. Nel 1911 a questo eroe della lotta agraria e promotore di una politica autonomista che tuttavia non rinnegava la sovranità britannica, è stato dedicato un alto obelisco troncato all’inizio di Sackville Street. La statua di bronzo del grande uomo politico lo mostra in piedi sulla base, immortalato col braccio sollevato mentre si rivolge alla nazione (o indica il Conway's pub che era lì all’angolo, secondo gli spiritosi). Alle sue spalle l’arpa simbolo della nazione, incisa nella pietra e dorata, e un passaggio del suo discorso tenuto a Cork nel 1885, in cui proclama:
Nessun uomo ha il diritto di porre confini alla marcia di una nazione
Sui giornali che riportarono una cronaca di quel giorno (io un po’ per caso ho trovato un articolo dallo “Sligo Champion” datato 7 ottobre 1911, una settimana dopo l’evento) il clamore che aveva accompagnato l’inaugurazione è reso senza girarci attorno:
“Domenica scorsa Dublino è stato il palcoscenico della più grande manifestazione mai tenutasi nella metropoli irlandese. L’occasione era l’inaugurazione del monumento commemorativo eretto dagli irlandesi e dedicato alla memoria Charles Stewart Parnell. Solo nel 1882, in occasione dell'inaugurazione del monumento a O'Connell, si era assistito a una manifestazione simile a quella di domenica a Dublino, ma la manifestazione di domenica è stata di gran lunga superiore a quella che aveva avuto luogo in quell'occasione.
Da quel momento Nelson si trovava in mezzo a due figure di grande carisma, entrambe distintesi per meriti di cui la popolazione irlandese aveva giovato enormemente. Il Liberatore verso sud e a nord “Il re non incoronato d’Irlanda”, titolo che aveva accompagnato Parnell dopo che aveva saldamente preso in mano il controllo del Partito Parlamentare, formavano una coppia che rappresentava gli ideali irlandesi in modo così evidente e partecipato, da ridurre l’ammiraglio Nelson a vestigia ingombranti di un passato che era sempre più urgente superare.
A maggior ragione se si considera che la compagnia di strada dal 1870 aveva accolto anche un altro personaggio il cui curriculum era molto significativo. Al punto che con lo sguardo di oggi, senza il lavoro di uno storico che aiuti ad inquadrare con finezza di dettaglio il contesto politico e sociale di quel tempo, si fatica a credere possa essere stato scelto per ornare un punto di passaggio così delicato come O’Dolier street, lì dove Carlisle Bridge si apre in uno slargo che smista il traffico in quattro direzioni. William Smith O’Brien è stato un nazionalista rivoluzionario, a capo di una rivolta armata ma fallita (miseramente) nel 1848 a Tipperary, durante la Grande Carestia, che gli era valsa una condanna per alto tradimento. Condanna che avrebbe comportato un’esecuzione esemplare per efferatezza, perché all’impiccagione sarebbe seguito lo squartamento e lo smembramento del corpo. Ma gli fu commutata con la deportazione in Tasmania (allora Van Diemen’s Land), da dove peraltro O’Brien fece ritorno pochi anni prima di morire. Il monumento a lui dedicato è semplice nella forma, perché è costituito da una base a gradini, un piedistallo ben poco ornato che reca un’epigrafe in gaelico e in inglese, su cui poggia la statua in marmo bianco siciliano. Ritrae l’uomo con indosso il vestito con marsina lunga, che esprimeva l’eleganza in voga nel suo tempo, le braccia conserte con la destra che regge un cartiglio. E’ un’opera eseguita con finezza ma non è certamente vistosa e sembra esprimere il contegno di un politico che combatteva con i documenti e la retorica, ma dati i suoi trascorsi il suo significato simbolico è di notevole potenza. Era la prima volta che si metteva al centro dello spazio pubblico una figura quantomeno controversa. Lo si poteva considerare un martire e un precursore della lotta armata, quale via necessaria per ottenere l'indipendenza, e ovviamente, al contrario, un modello che incitava alla sedizione violenta e la sua statua una provocazione che andava contro le fondamenta dello Stato. A seconda dell’appartenenza alle frange nazionaliste o più vicine alle posizioni unioniste (fedeli alla Corona e all’Impero) il giudizio sull’uomo polarizzavano l’opinione pubblica.

A donare a Sackville Street un’aura ancora più solenne, che il mito del sacrificio degli eroi circonfonde, ci furono i tragici momenti della Ribellione del lunedì di Pasqua del 1916. La circostanza che i ribelli si fossero barricati nell’edificio del General Post Office (G.P.O.), qui dove in quei momenti concitati era stata proclamata la peraltro effimera Repubblica d’Irlanda, comportò una reazione violenta da parte dell’esercito inglese. Violenta e forte di una superiorità militare che gli insorti avevano sperato di poter fronteggiare con armi provenienti dalla Germania, ma che non arrivarono mai a destinazione. Il momento decisivo fu il posizionamento della nave da guerra HMY Helga, dotata di un cannone navale da 12 libbre. Un calibro non particolarmente potente per la guerra in mare, ma devastante per gli obiettivi da colpire in città. Helga venne infatti fatta risalire lungo il Liffey e ancorata nei pressi della Custom House. Una posizione che le consentiva di mirare agli edifici in cui si erano asserragliati i ribelli. I colpi distrussero buona parte dei caseggiati del tratto inferiore di Sackville Street e soprattutto scatenarono le fiamme che distrussero completamente l’interno del G.P.O., costringendo alla resa i leader della rivolta che qui erano barricati. E ponendo fine all’insurrezione.
In questo trambusto qualche colpo di fucile colpì il gruppo di statue del monumento a O’Connell. E anche la colonna di Nelson, che vide costruire il G.P.O. a pochi passi e lo vide andare in fiamme, subì pochi danni. Donal Fallon, autore di "The Pillar", che consiglio per chi volesse approfondire (ma già che ci sono, tutti i suoi libri meritano perché ha saputo trovare il taglio giusto per raccontare storie partendo dai luoghi della città, da singole vie a Phoenix Park, e recentemente parlando nientemeno che di pub), e che mi è stato molto utile per tappare alcuni buchi nei miei appunti ed evitare imprecisioni, riporta che l’Irish Times aveva scritto che un proiettile aveva fatto perdere il naso al volto dell’ammiraglio. Dalla foto qui sotto, scattata dalla piattaforma panoramica nel maggio del 1916, dunque due mesi dopo l’Easter Rising, a me sembra che il naso sia ancora al suo posto. Ma potrebbe essere un errore indotto dall’angolazione fortissima da cui è stata scattata (aggiungo che questa è l’unica immagine che ho trovato - delle svariate decine che sono facilmente reperibili - che riprende la statua da distanza ravvicinata). Oppure che il naso fosse stato solo danneggiato, dettaglio che però non è apprezzabile con questa inquadratura.

Negli anni a seguire i sentimenti verso questo manufatto rimangono contrastanti, ma lo spirito iconoclasta non pare molto vigoroso. Non era mai stato una vera minaccia per la sopravvivenza del monumento, ma prima delle vicende che hanno portato all’indipendenza dall’Inghilterra nel 1922 e la seguente guerra civile, le tensioni che si concentravano sui simboli erano più forti. Quando le questioni da affrontare passarono ad un piano molto più concreto e dall’impatto incomparabile, l’interesse per le sorti della nazione prevalsero su quelle di un intruso di pietra.
Anche a volersi fare un’idea di cosa ne pensavano gli artisti dell’epoca non si ricavano atteggiamenti ostili. Tuttavia Joyce nel settimo capitolo dell’Ulisse, Eolo, vi ambienta una scena in apparenza solo divertente. E’ una storia che viene raccontata da Stephen Dedalus ad alcuni personaggi ed è nota come “La parabola delle prugne”: due “vestali” cinquantenni (un eufemismo per dirci che sono zitelle, ma con l’intenzione di nobilitare queste due donne comuni con un’aura di sacralità? Mi sembra una bella ipotesi, anche alla luce del senso dell’episodio, come vedremo) “vogliono vedere Dublino dall’alto della colonna di Nelson” (la traduzione è di Enrico Terrinoni, nell’edizione definitiva, per curatela e apparati, pubblicata da Bompiani nel 2021). “Si mettono i cappellini e i vestiti migliori e prendono gli ombrelli per paura che possa venire a piovere”. Partono dai Liberties, quartiere nella zona sud della città, lungo la strada si comprano della carne con gelatina e delle fette di pane e “ventiquattro susine mature da una ragazza ai piedi della colonna di Nelson…”. Pagano i tre penny per l’accesso e “cominciano a salire lentamente e strascicando i piedi sulla scala a chiocciola, brontolando, dandosi coraggio l’un l'altra, in preda alla paura del buio, ansimando, una chiede all’altra ce l’hai tu la carne, ringraziando Dio e la Beata Vergine, minacciando di scendere giù, scrutando gli sfiatatoi. Gloria a Dio. Non avevano idea che fosse così alta.”
Una scena descritta con una vivacità e una precisione psicologica che dimostrano in poche righe la forza della scrittura di Joyce anche quando adotta una prosa abbastanza lineare e realistica (questo vale per la parabola in sé, perché il capitolo in sé è sperimentazione sopraffina). Ma come prosegue non è da meno: le donne mangiano la carne e si puliscono le dita una ad una e mentre stanno per affacciarsi al parapetto temono che la colonna possa cadere, poi però scrutano l’orizzonte e cercano le chiese che conoscono. Per l'ebbrezza che dà loro quella prospettiva inedita si accovacciano un po’ stordite e girano le testa, “guardando in sù verso la statua dell’adultero monobraccio” (traduzione dell’originale “onehandled” che non mi convince del tutto - ne riparliamo più avanti - ma ubimaior…). Qui Joyce scherza su una caratteristica fisica che ha accompagnato l’uomo dalla battaglia di Santa Cruz de Tenerife nel 1797, quando una palla di moschetto gli frantumò l’osso sopra il gomito del braccio destro, ferita che costrinse il chirurgo all’amputazione. La statua è comunque realistica e dunque ritrae l’uomo come era solito indossare la divisa, con la manica vuota appuntata al petto. E poi lo prende in giro per via della relazione avuta con Emma Hamilton, moglie di Sir William Hamilton, ambasciatore britannico a Napoli.
La scena si conclude con le due sfinite. “Allora mettono tra di loro il sacchetto di susine, e mangiano le susine una dopo l’altra, pulendo coi loro fazzoletti il sugo susinesco che gli cola dalle labbra, e sputando piano piano tutti i noccioli susineschi di sotto, attraverso la ringhiera.” La traduzione qui è di Gianni Celati, dall’edizione Einaudi del 2013.
Una bella descrizione, dunque, con un finale ridicolo. Eppure non ci si può fidare di Joyce, nemmeno quando sembra donarti un raccontino così ben pennellato e infilato dentro un capitolo fatto di una sovrapposizione di piani narrativi simultanei. Perché nascosto in questo episodio c’è infatti l’intenzione di mostrare la sua irriverenza a quel simbolo del potere britannico (l’Ulisse è ambientato prima dell’indipendenza), mostrando due donne comuni che gettano uno sguardo veloce ad una statua in cui non vedono l’eroe né un esempio di valore militare, casomai un uomo con deboli virtù morali e menomato. Però qui Joyce, che è un campione del gioco di parole e pure di perfidia, non si limita a irriderlo. Già aver usato “handled” al posto di “handed” suona denigratorio, perché il primo aggettivo si usa per gli oggetti e pertanto non essendo Nelson una brocca o un tegame, sarebbe stato corretto descrivere un veterano mutilato come “one handed”.
Ma il vero colpo basso è quello che è lasciato da cogliere al lettore, così come J.J. O’Molloy, uno delle persone che ascoltano la parabola di Dedalus, dimostra di aver fatto quando replica alla battuta “onehandled adulterer” dicendo “Questa mi piace. Intuisco l’idea. So cosa intendi”: ci immaginiamo che colga l’allusione alla vita privata di marito fedifrago - episodio della sua vita che era notissimo per lo scalpore che aveva suscitato - ma soprattutto quella volgare suggerita dal verbo “to handle” (maneggiare) che nel gergo può essere usato per indicare la masturbazione. E che si tratti di questo tipo di riferimento è ribadito nel finale con le due ultime battute. La prima è di O’Molloy (dalla traduzione di Giulio de Angelis del 1960, la prima integrale in italiano).
“Adultero monomano, disse ferocemente. Davvero mi solletica.”
“Solleticava anche le due vecchiette, disse Myles Crawford, se si sapesse tutta la Santa verità di Dio.”
Un'allusione che pare avere effetto anche sulle due. E a questo punto non mi costa nulla giocarci un po’ e suggerire una traduzione che vorrebbe essere più esplicita, ma temo ancora troppo criptica in italiano, qualcosa tipo “monosmanaccione”, o una ancora meno chiara e più in stile Finnegans Wake, “smanacciuno”. Oppure, ancora, più sottile, “monanista”. Va bene, ci siamo capiti, fine del divertissement. Anche perché questo doppio senso, diciamolo, non riesce in italiano. E tutto sommato, monomano, se vogliamo restare vicini all’uso malandrino dell’arto, è più pertinente che un generico e poco erotico monobraccio.
Ma è un gioco di parole che rende chiaro dove voleva arrivare Joyce: sminuire l’uomo e metterlo in ridicolo, tutto in punta di penna. Ma aggiungerei che con questa sola goccia di inchiostro è riuscito anche a vandalizzare la statua.
A stare alla critica il senso dell’episodio non sta tuttavia in questa offesa, davvero sottile, bisogna ammetterlo. Se guardiamo a tutta la scena, ci rendiamo conto che sì, con la stessa sottigliezza il gesto insolente di sputare i noccioli, dando le spalle alla statua, può essere visto come lo sberleffo del popolo irlandese verso quel simbolo derelitto che assiste impotente il suo impero collassare. Ma è il gesto con cui la saggezza nascosta nei panni di due popolane, vivaci e spregiudicate, sfida e provoca la paralisi della società irlandese che rendeva impossibile l’affermazione della volontà individuale, la liberazione della costrizioni della famiglia, della religione e del provincialismo. Dall’alto le due osservano tutta la vita della città e con questi “aeroliti” (così li chiama Joyce) lasciati cadere sulle teste dei concittadini cercano di svegliare le loro coscienze.
Negli anni ‘30, ci spiega sempre Fallon, il dibattito si rianima nel modo cui siamo abituati anche noi del millennio seguente riguardo alle tante figure controverse in piedi o a cavallo, di pietra o di bronzo, sparse in giro per il mondo. E in particolare in quei luoghi dove la sensibilità contemporanea ridiscute il portato delle loro azioni alla luce di una consapevolezza storica adeguata alla società d’oggi (pensiamo a Colombo, per dire). Da una parte dunque qui si sono schierati i detrattori per le ovvie ragioni di orgoglio nazionalista, dall’altra chi si opponeva alla demolizione perché difendeva il valore storico e documentario dell’opera.
Le proposte di cambiare il titolare del podio in cima alla colonna è sembrata una soluzione che assecondava il sentire comune, ovvero che una cosa era la colonna, un’altra la statua. Il monumento era “the pillar”, era riconoscibile in città e spendibile per la sua promozione, veniva infatti visitato da turisti di tutto il mondo e da locali. Ormai era parte di Dublino e l’immagine di Dublino ne riceveva qualcosa. Rimuovere Nelson per una statua della madonna, di un altro patriota, del presidente americano Kennedy sono solo alcune delle idee, tra l’improbabile e l’esilarante, che sono state avanzate negli anni.
Un editoriale pubblicato su The Irish Times del 9 marzo del 1966, sottolineava con una certa efficacia quanto stonata fosse quella presenza dopo la conquista dell’indipendenza, con queste parole: “avere Nelson lassù sarebbe come se la statua di un generale austriaco fosse piazzata sulla via principale di Milano”. La bomba era esplosa all’una e mezza di quella notte. In quell’anno si festeggiavano i cinquant’anni dall’Easter Rising, l’insurrezione di Pasqua.
Quando mi avvicino alla testa di Nelson ho già trascorso giornate intere a raccogliere informazioni sui motivi che l’hanno fatta volare giù dal piedistallo, assieme a tutta la parte superiore della colonna. Sono passati anni, ma mi ricordo tutto abbastanza bene.
E se per me è stata una piccola odissea raggiungerla per osservarla, resta abbastanza incredibile che ci siano voluti decenni per trovarle una collocazione fruibile da chiunque passi da queste parti.
Tuttavia gli anni sono passati anche per gli storici locali e poiché Fallon è uno di questi e ha messo in ordine un po’ di cose, i miei appunti ora sono in parte da aggiornare.
Ma partiamo dall’inizio, perché prima di tutto c’è stata l’esplosione. Un ordigno composto da un misto di gelignite e ammonal, innescato da un timer collegato ad una batteria. E’ stato piazzato una prima volta il 28 febbraio, ma qualcosa è andato storto. Il primo di marzo è stato ricontrollato per correggere errori nei collegamenti tra i fili e quindi riposizionato la sera prima della detonazione, poco prima della chiusura della Colonna. Quando è esploso l’artificiere dormiva tranquillo nel suo letto.
Tutti questi dettagli sono emersi da un’intervista degli anni 2000 che si trova su Youtube, in cui Liam Sutcliffe racconta il suo coinvolgimento in un’operazione che era nata all’interno di una cellula autonoma di fuoriusciti dall’IRA, a capo della quale c’era Joe Christle, uno dei vari cani sciolti che hanno portato avanti azioni di disturbo contro il governo britannico in modo indipendente tra gli anni ‘60 e ‘70.
L’idea che li aveva ispirati era di compiere un atto che attraverso la rimozione di quel residuo simbolico dell’imperialismo britannico attirasse l'attenzione sul giubileo della Rivolta di Pasqua e la ricorrenza assumesse più rilievo di quanto discorsi e celebrazioni varie potessero darle.
A stare ai resoconti è difficile capire se ottennero questo risultato. Anche se, come vedremo tra poco, c’è chi cavalcò questo sentimento, benché con molta ironia.
I resti della colonna mozzata furono giudicati non riparabili, dunque si decise per la demolizione. Ora, qui la leggenda vuole che gli artificieri intervenuti a far brillare le cariche che rasero al suolo il moncherino provocarono più danni alle vetrine della via dell’esplosione criminale. Tanto che la battuta che pare avesse circolato diceva “che a finire il lavoro dovevano chiamare i ragazzi della prima volta.”
Donal Fallon sostiene che in realtà si tratta di una leggenda metropolitana, perché la somma delle richieste di risarcimento per il secondo botto furono un quarto di quelle del primo. Non per questo si può escludere che qualche spiritoso la battuta l’abbia fatta davvero, perché ha l’autenticità dell’umorismo che circola da queste parti e che non ha mai smesso di ridere di qualunque cosa.
La scena folk fu molto reattiva a sfruttare il clamore che l’evento aveva suscitato. E chi riuscì a trarre maggior vantaggio furono quattro insegnanti di Belfast che scrissero la canzone “Up went Nelson” (Lassù se n’è andato Nelson) e che dopo averla registrata come Go-Lucky Four la videro salire in cima alle classifiche irlandesi dove rimase per alcune settimane. Il testo, cantato sulla melodia di “The Battle Hymn of the Republic", nota anche come “John Brown” (Glory glory hallelujah, insomma), è un’ironica e irriverente rilettura dei fatti e del contesto attorno alla Colonna e alla sua dinamitarda fine. Non mi sbilancio a interpretare i motivi del successo del motivetto. Che sia stata la canzonetta giusta al momento giusto è abbastanza evidente, data la ricorrenza storica pronta ad essere festeggiata. Meno dimostrabile che i versi così apertamente favorevoli alla rimozione violenta avessero trovato corrispondenza nei sentimenti della gente. Vero è che il clima, in particolare in Irlanda del Nord, si stava riaccendendo ed entro la fine del decennio gli scontri avrebbero dato inizio alla tremenda e lunga stagione di violenza nota come i “Troubles”.
Oh, lasciate che vi racconti la storia di un monumento famoso,
Che fu costruito per onorare Nelson, avete tutti sentito il suo nome.
Sorgeva in O'Connell Street, uno spettacolo bellissimo da vedere,
Ma gli irlandesi non hanno alcun amore per esso, né per la Regina britannica.
(Ritornello)
Gloria, oh, agli uomini che l'hanno abbattuto,
Gloria, oh, agli uomini della città di Dublino!
Gloria, oh, ai ragazzi che hanno risposto alla chiamata:
"Per la gloria della nazione, la Colonna di Nelson deve cadere!"
Per centocinquantasette anni è rimasta lì in piedi,
Per la gente della città, era una vergogna e una trappola.
Maledizione su di te, Nelson, la tua colonna se n'è andata,
E al suo posto, costruiremo una statua per gli uomini del '16.
(Ritornello)
Fu l'otto di marzo, nell'anno '66,
I ragazzi di Dublino, con la gelignite, giocarono un bello scherzo.
Lassù se n'è andato Nelson nella colonna, dritto verso il cielo,
E la gente di Dublino esultò e disse: "È ora che tu muoia!"
I Dubliners, artisti con una carriera che sarebbe durata cinquanta anni, dunque all’opposto degli effimeri insegnanti di Belfast che non diedero seguito al loro successo, il 26 e il 27 aprile registrarono il loro concerto al Gate Theatre e nel disco che ne ricavarono posero come ultimo brano la canzone “Nelson Farewell”.
“L’addio di Nelson” recita questi versi:
La popolazione irlandese accorse da chilometri di distanza
per vedere l'eroe inglese disteso a terra
Il Comune di Dublino non aveva fondi per farlo
ma il pilastro fu fatto saltare in aria, tonnellata dopo tonnellata, tonnellata dopo tonnellata
La band era salita sul palco assieme ad un oggetto di scena molto particolare. La testa della statua di Nelson.
Ecco, per l’appunto, che fine aveva fatto? E come c’era arrivata lì a teatro un mese e mezzo dall’esplosione?
La mattina dopo in O’Connell street si era scatenata la caccia al frammento da portarsi a casa come ricordo del monumento che non esisteva più. Senza controllo, la gente si accalcava a cercare le parti migliori della colonna. In particolare quelle del basamento che recava incise le vittorie dell’ammiraglio. E ovviamente le parti della statua.
Con pezzi dei blocchi c’è chi ci ha fatto i gradini nel giardino sul retro della casa, ma molti si sono accontentati di schegge o poco più. Le porzioni in cui era riconoscibile una o più lettere sono state disperse e si trovano ora presso privati in vari luoghi d’Irlanda. Un frammento fa parte della collezione ricchissima ed eterogenea (se non suonasse orrendo, il superlativo sarebbe d’obbligo anche qui) del Little Museum of Dublin, un luogo che ha declinato in modo molto originale e brillante il racconto della storia della città.
Del corpo in pietra di Nelson l’unica parte che è sopravvissuta al depredamento è, come è noto fin dall’inizio di questa storia, la testa.
Fu messa in salvo, per così dire, da qualche dipendente del comune della città e portata in un deposito. Non vi rimase a lungo. Alcuni studenti del National College of Arts and Design penetrarono nel recinto e la portarono via. Premurandosi di lasciare due sterline per ripagare i danni fatti. Un gesto in apparenza goliardico, in realtà quei ragazzi, a corto di denaro, pensavano di poterci ricavarci qualcosa affittando la testa. E infatti la testa comincia a muoversi. Il 18 marzo ci si accorge del furto con effrazione, il 26 la testa è sul palco con i Dubliners. Pochi giorni dopo sulla spiaggia di Killiney viene notato qualcosa di strano, o per meglio dire qualcosa di strano e di ingombrante e piuttosto pesante trasportato da gente col passamontagna. Il 2 aprile l’Evening Herald pubblica delle foto di uno shooting di moda sulla stessa spiaggia e la testa entra nell’inquadratura assieme alle modelle. Nei piani degli studenti c’è però il proposito di far superare il confine in Irlanda del Nord e di trasportare quindi il reperto a Londra, dove un ricco antiquario era disposto a pagare bene per poterla tenere in esposizione nel negozio. E qui rimane qualche mese, in sostanza finché a Dublino qualcuno comincia a chiedersi se non sia il caso che quell’oggetto torni da dove è venuto e dove dovrebbe stare.
La polizia nel frattempo aveva alzato il tiro e messo sotto torchio un po’ di studenti, una reazione determinata che finora era mancata e che sortisce l’effetto di indurre i responsabili della bravata ad adoperarsi per favorire il rimpatrio al più presto. E’ così che a settembre la testa di Nelson fa ritorno assieme all’antiquario, che coglie l’occasione di giocarsi un'ultima mossa ad effetto. La carica su un carro e le fa attraversare O’Connell street fino al General Post Office. C’è anche il tempo per i Dubliners di suonare una versione modificata della loro canzone, intitolata per l’occasione “Nelson’s return”.
Nel momento in cui i dipendenti del comune la riprendono in custodia, la storia sembra avviata alla conclusione. Ma non è così: se per un secolo e mezzo quella pietra è rimasta immobile al suo posto, nei mesi e negli anni successivi la testa di Nelson continuerà a viaggiare.
Che fosse il caso di esporla non era un’evidenza chiara e condivisa, tant'è che la prima sistemazione nella City Hall (il municipio in Dame street) è stata in un deposito lontano dalla vista di chiunque. E’ poi seguita una seconda collocazione nel già citato Civic Museum in South William street. Quindi finalmente qui in Pearse street, pare già nel lontano 2005, due anni dopo che nel luogo lasciato libero dalla colonna era stato eretto un nuovo monumento, The Spire, un cono d’acciaio alto 120 metri, diventato uno dei simboli più riconoscibili della città. E' un angolo appartato ma non discosto e avvolto dal perenne silenzio della sala di lettura della Dublin Civic Library and Archive. Un luogo insolitamente tranquillo visti i trascorsi e la sua prima gloriosa sistemazione, sopra a tutto il traffico delle città, le fasi di espansione, di declino e di rinascita, sopra il trambusto degli uomini, la vita e la morte.
Prima o poi qualcuno potrebbe pensare di trovarle un posto ancora migliore, se non altro per toglierle l’aspetto di ingombrante oggetto d’arredamento fuori contesto. Dopo la caduta dal suo piedistallo, l’unica parte della statua sopravvissuta, è diventata un trofeo, merce di scambio, oggetto per arredare, e pure un relitto consumato dalle avversità prima che dal tempo. Qualcosa di cui non si è saputo bene cosa fare. Nella biblioteca in Pearse street non manca il rispetto e se entrate in una delle stanze al pianterreno troverete una riproduzione in scala della colonna nella sua interezza. Credo tuttavia che si meriti di essere valorizzata oltre che ben conservata ed esposta al pubblico. Magari in uno spazio in cui possa tornare ad essere ricollegata alla storia della città.
Fino a quel momento sapete dove andare per guardarla negli occhi.

Appendice: un tentativo di analisi della foto di copertina.
Ho acquistato questa stampa qualche anno fa. Non avevo ancora le idee molto chiare su come avrei scritto la storia della Colonna, benché, come ho accennato, negli anni avessi accumulato molti appunti e paragrafi interi al riguardo.
Adesso che il testo è completo e le ricerche per arrivare alla fine hanno dovuto ripartire da zero, posso dire un paio di cose su questa foto. La prima è molto semplice: non ne ho trovata traccia nella rete né nei libri consultati. E, come accennato anche prima, ne ho viste tantissime.
La seconda è che non avendo una data sul retro, per cercare di datarla è necessario analizzare gli elementi che offre. Confesso che non mi sono messo a fare ricerche che avrebbero portato via una quantità di tempo incompatibile con i miei impegni. Diciamo dunque che l’ho proposta ad un “modello di ragionamento” offerto dai sistemi che chiamiamo intelligenza artificiale, e questi sono i risultati.
L'auto con la targa ZE 2774 è il primo indizio fondamentale rilevato. Mi viene spiegato che nel sistema di targhe irlandese dell'epoca, le lettere indicavano la contea di registrazione. "ZE" era il codice per la Contea di Clare, è stato utilizzato tra il 1948 e il 1951. Questo restringe enormemente l’arco temporale: la foto non può essere stata scattata prima del 1948.
C’è però da ragionare anche sullo stile delle auto. Tutte le automobili visibili (è stata riconosciuta una Morris Eight Series E o simili modelli Austin e Standard) hanno un design tipico della fine degli anni '30 e degli anni '40, con parafanghi separati dalla carrozzeria e forme arrotondate. Non c'è traccia di modelli con design più moderno, tipico degli anni '50. Anche questi dettagli riportano dun que agli anni '40.
Un altro elemento molto utile sono i tram. Nella foto si vedono chiaramente i loro binari e i fili elettrici aerei, e in lontananza se ne intravede uno in funzione. Il servizio di tram su O'Connell Street a Dublino cessò definitivamente nel luglio del 1949. La loro presenza funzionante ci dà un altro limite temporale, in quanto la foto deve essere stata scattata prima di luglio 1949.
Ci sono poi delle figure femminili in primo piano. Queste donne indossano cappotti con una linea con spalle larghe e squadrate, la vita è segnata e la lunghezza arriva appena sotto il ginocchio. Uno stile tipico del periodo tra la Seconda Guerra Mondiale e la fine del decennio.
Insomma, al di là delle conferme sul periodo che i modelli delle auto, oppure gli abiti, ma anche le pettinature, ci danno, targa e tram sembrano essere elementi decisivi per circoscrivere la data dello scatto tra il 1948 e il luglio del 1949.