Mille anni e poco più

Mille anni e poco più

Nel 1988 a Dublino ha festeggiato un anniversario speciale, i mille anni di vita. Un evento controverso e bizzarro, ma a suo modo struggente.
L’occasione è stata pescata nelle cronache altomedievali, che hanno attribuito la conquista della città da parte di Máel Sechnaill mac Domnaill, re di Mide e anche occasionale Alto Re d’Irlanda, per l’appunto nel 988.
L’episodio dell’assedio di Dyfflinn, come era chiamata Dublino a quel tempo, in realtà è avvenuto l’anno successivo. Ma a politici, amministratori e imprenditori, nel delicato momento storico in cui si trovava la città moderna e l’Irlanda tutta, più che la precisione pedante degli studiosi serviva la suggestione di una narrazione efficace. Una soluzione già adottata da altre città, per contrastare il senso di preoccupazione nella popolazione su cui pesavano anni di recessione economica. Nel 1984 inaugurò la serie Galway che festeggiò i suoi 500 anni, l’anno dopo Cork che poteva celebrare il compleanno degli 800, e dopo Dublino seguiranno Dundalk nel 1989 e Limerick nel 1991.
L’urgenza non era tanto di fare festa alla capitale della nazione, che ci fu e fu chiassosa e piena di cose (anche) di pessimo gusto, quanto di tentare il rilancio della sua immagine da decenni offuscata da una pletora di problemi.
I tempi erano maturi, ma il percorso sarebbe stato comunque lungo. Eppure, se oggi la città pullula di gente impegnata a vagare da un luogo di attrazione all’altro, che affolla le vie commerciali o che si cimenta in una via crucis alcolica di pub in pub, il 1988 è l’anno della svolta. L’anno che ha posto le basi da cui amministrazione e investitori hanno iniziato a togliere la patina di grigiore respingente che avvolgeva una città che per importanza era stata la seconda dell’impero britannico, quasi due secoli prima. Del cui splendore non rimanevano che vestigia sparse in un tessuto disastrato dall’incuria e dalla speculazione edilizia. O per dirla con Dermot Bolger, una situazione giunta allo stadio di “declino terminale”.
Il pretesto della conquista da parte del re irlandese per organizzare la grande festa è stato tuttavia fonte di perplessità. Si trattava pur sempre di un atto di sottomissione della città, che fioriva da almeno un secolo e mezzo. Cioè da quando i vichinghi, risalita la foce del Liffey, trasformarono un accampamento stagionale in un insediamento permanente. Ma questa è una storia complessa, costruita più sui reperti che sulle fonti, che merita un racconto a sé.
Sicuramente a convincere gli organizzatori che l’episodio avesse sufficiente conformità storica e una valenza simbolica anche maggiore, giocò l’equivoco che dopo i tre giorni dell’assedio delle truppe del re, uno dei tanti che controllavano i piccoli regni in cui era divisa l’isola, la città fosse stata sottratta al dominio vichingo per passare nelle mani di un clan irlandese. Echi e suggestioni di un autonomia che è argomento serio e sacro per una nazione che è stata sottomessa per sette secoli agli inglesi. Ma un concetto che, pur declinato in termini di indipendenza, nel contesto storico del X secolo è del tutto anacronistico.
Per dirla altrimenti, il sentimento politico di quei secoli era estraneo a quei fini. Per la ragione semplice e disarmante che non c’era nessuna unità nazionale da difendere né da realizzare: l’Irlanda era dentro uno scenario geopolitico esteso all’isola inglese e alle coste danesi e anche oltre, dunque di grande frammentazione e complessità. Uno scenario inoltre reso fluido dal continuo gioco di alleanze tra clan autoctoni e tra questi e i gruppi di vichinghi (che peraltro sarebbe meglio dire “norreni”) che dall’inizio del IX secolo avevano colonizzato le sue coste.
Di fatto la conquista di Dublino era stato uno scontro sanguinoso e anche “umiliante” se visto dal punto di vista della città, come in quei giorni di festa aveva sottolineato, davanti ad un cronista, lo sbigottito Howard Clarke, uno dei suoi massimi studiosi: l’antica Dublino, infatti, non solo subisce un assedio, terminato il quale vede una parte della popolazione ridotta in schiavitù. Ma è anche sottomessa attraverso l’obbligo di tributo al re. Ed è profanata nei suoi simboli più sacri. Il vincitore infatti porta con sé nel bottino di guerra il cosiddetto anello di Thor, un amuleto di circa 15 cm di diametro, con pendenti, affisso sulla porta del tempio dedicato al dio e davanti al quale venivano pronunciati solenni giuramenti. Per intenderci, l’ingresso del re non trasforma la città, né per imposizione forzata né per decreto, in un presidio irlandese. Basti considerare che a capo della Dublino soggiogata lo stesso re pone Sitriuc Silkbeard. Sitriuc o Sitric o Sytrigg, è di palese discendenza vichinga e per i successivi quarant’anni rimane nell’orbita del potere cittadino, perdendo più volte la carica di re, sopraffatto dall’ostilità di altre figure attive su quello scacchiere. E riconquistandola grazie alla sua abilità di tessitore di alleanze, che non escludevano certo gli stessi vichinghi.
Dunque, osservato lo scenario con un po’ di campo largo, si può notare come la Dublino di cui si impossessa il re di Mide, è ben lontana anche solo dall’ambire a un’identità irlandese. Ma, come si accennava, circa mille anni dopo i tempi sono maturi per una celebrazione che riempia di orgoglio e di speranza.


Anche in termini di accesso al credito le cose si sono messe bene, perché oltre alle risorse locali, nel 1988 il governo irlandese si giovò anche ai fondi della Comunità Europea: fu creato un logo, invero molto squadrato e che nella sua geometrica essenzialità riproduc lo stemma cittadino caratterizzato da tre caselli in fiamme; furono stampati francobolli e coniate monete, furono prodotte spille, adesivi e toppe, e persino le bottiglie del latte e le tazze del caffè ebbero le loro decorazioni a tema. E inneggiando alla città con lo slogan “Dublin’s great in ‘88”, tra il 9 e 10 giugno, tutti scesero in strada per la festa di questo improbabile compleanno della capitale d’Irlanda. E poi ci scesero una seconda volta il 19 per accogliere la squadra di calcio, reduce dal suo debutto assoluto in una competizione internazionale, quegli europei da cui uscirono alla prima fase a gironi, ma a testa alta, non tanto per il glorioso pareggio con l’Unione Sovietica, ma per aver battuto, col risultato di uno a zero, l’Inghilterra il nemico per eccellenza (diciamo solo sportivo, ma va ricordato, per comprendere il sentimento nazionale, che sono comunque ancora anni di Troubles e il 1988 di fatti di sangue ne ha contatti parecchi e gravi).
E mille furono le manifestazioni, o quantomeno questo fu il numero dichiarato dagli organizzatori, di un calendario di eventi grandi e piccoli che occupò tutto l’anno solare nell’intera contea. Ci furono inaugurazioni di statue, tra cui quella divenuta celeberrima di Molly Malone all’inizio di Grafton Street (oggi spostata di un centinaio di metri per lasciare spazio ai binari della Luas, la linea di tram leggero) e quella molto meno fortunata di Anna Liffey immersa in una fontana nella centrale O’Connell Street, ma che per le implicazioni joyciane merita un discorso a sé. E poi giardini, come il Millennium Garden, nei pressi del Castello, rimosso nel 2006, quindi spettacoli, mostre, corse di cavalli e ricostruzioni storiche. Tra queste ci fu la spettacolare replica di una nave vichinga, battezzata “Dyflin” e messa in acqua nei cantieri dell’East Wall, nella zona portuale della città.
Sarebbe apparsa bizzarra l’accensione di una candela celebrativa alta tre metri, se non fosse che era stata donata dalla Rathbornes Candles, l’azienda che a Dublino produce candele dal 1488. Un’azienda straordinariamente longeva, anzi pare la più antica nel suo genere al mondo. Che è sopravvissuta alla modernità e non nasconde l’orgoglio per aver contribuito a rendere sicura la vita in terra e sul mare, fornendo l’illuminazione delle vie, degli interni delle case e delle lanterne dei fari per almeno quattro dei suoi cinque secoli di attività.
A dare ulteriore visibilità all’evento della celebrazione del millenario, vi fu la trovata di depositare la riproduzione in fibra di vetro e alluminio di un Gulliver alto circa diciotto metri sulla sabbia della Dollymount Strand, l’arenile di Bull Island, poco fuori la città sulla strada per Howth.
Ancora oggi è certamente molto suggestivo vedere nei servizi della RTÉ, la televisione nazionale, i curiosi accorsi attorno al gigante spiaggiato trasformarsi in uno stuolo di lillipuziani. L’eroe viaggiatore fu poi rimesso in acqua e trascinato nella baia fino alla foce del Liffey, e da qui fatto sfilare controcorrente sul lungofiume in mezzo a migliaia di persone assiepate a salutarlo dalle banchine. Un secondo Gulliver, gonfiabile e meno imponente nei suoi otto metri di altezza, fu eretto nel cortile della cattedrale di Saint Patrick, a poca distanza dalla tomba in cui riposano le spoglie del suo creatore, Jonathan Swift, qui dove aveva trascorso gli ultimi trentacinque anni della sua vita in qualità di decano della Chiesa d’Irlanda. Ma agli organizzatori l’immagine di Gulliver doveva essere parsa particolarmente azzeccata, poiché un busto raffigurante l’eroe viaggiatore in elegante marsina blu fu portato in processione durante una sfilata, preceduto da un imparruccato figurante nei panni dell’autore, sorridente a fianco di un non meno allegro sindaco, adorno della catena di rappresentanza.
Tra le tante stranezze delle celebrazioni del millennio lo sfruttamento di Swift e della sua creatura più nota acquista un che di grottesco dal momento che si tratta pur sempre del più celebre e feroce critico della società irlandese, uno che in materia se la gioca solo con Joyce. Non a caso dai fasti di quella celebrazione l’attenzione verso l’illustre dublinese è poi tornata quella di prima e oggi sembra una presenza evanescente. In una città in cui sono state dedicate statue un po’ a tutti, dalla rockstar ai giornalisti martiri, le uniche rappresentazioni plastiche dello scrittore rimangono il busto in marmo scolpito da Louis-Francois Roubillac e posto nella Long Room della biblioteca del Trinity College nel 1749, quattro anni dopo la sua morte. E quello nella cattedrale di St Patrick, che recita il famoso epitaffio scritto da lui medesimo in cui la frase “la feroce indignazione che lacerava il suo cuore” rimanda a quella acredine che gli ha fatto definire la natia Irlanda come “il posto più sgradevole d’Europa”, “una misera, sporca tana di cani”, in cui aspettava di morire “nella rabbia, come un ratto avvelenato in un buco”.
Anche questo recupero dell’ingrato Swift contribuisce dunque a delineare lo spirito di quei festeggiamenti. Per l’efficacia dell’evento, per produrre e determinare la sua forza attrattiva nel mondo era necessario giocarsi tutte le carte che la tradizione offriva. Metterle insieme per cercare di delineare un’identità altrimenti sfrangiata.
Non a caso una delle locandine disegnate per l’occasione, mostra uno stuolo di volti non sempre facilmente riconoscibili ad un osservatore internazionale. La carrellata inizia con Brendan Behan, scrittore di romanzi, racconti e testi teatrali, accanto al quale sorride l’allora famosissimo Stephen Roche, ciclista che nel 1987 si era aggiudicato la prestigiosa tripletta con Tour de France, Giro d’Italia e Campionato del Mondo, dietro il quale appare uno stranito Bono in canottiera tamarra, testa a testa con Bob Geldof, entrambi sovrastati da un Joyce beffardo (e come altrimenti) accostato ad un più sornione Swift. Via via salendo appaiono alcuni protagonisti delle lotte indipendentiste dei due secoli precedenti, quindi Arthur Guinness e una pinta della sua roba scura, un anglo normanno, presumibilmente Strongbow che fissa con sguardo severo il sorriso gelido di un vichingo con immaginario elmo cornuto e che impugna un’ascia.
Ecco, forse c’era della sublime ironia in questa rappresentazione, certo è che la connotazione guerriera di questo generico uomo vichingo rimanda alle razzie e ai saccheggi per cui la popolazione scandinava è diventata famosa nell’immaginario comune. Ma se sorriso vichingo e sua fama stridono, rimane il fatto che le genti cui apparteneva sono state i vettori di reti commerciali vastissime e prolungate nel tempo abbastanza da trasformare un accampamento stagionale in un insediamento stabile che nel giro di poche generazioni ha prosperato e ha assunto la struttura e l’organizzazione di una città.
L’augurio del senatore David Norris che questi “360 bizzarri giorni del 1988 siano sfruttati per cambiare l'atteggiamento ed entrare nel nuovo decennio con più speranza che pessimismo”, alla fine funzionarono. Ci furono grandi festeggiamenti che attirarono centinaia di migliaia di turisti. Un numero certamente superiore a quello dei visitatori che già arrivavano attirati dalle bellezze della nazione e suggestionati dai suoni della musica tradizionale o dai tanti gruppi rock che dagli anni settanta hanno fatto girare per il mondo il nome dell’Irlanda. Ma nettamente inferiore ai flussi che da lì a pochi anni Ryanair veicolerà da tutta Europa grazie ad una politica dei prezzi innovativa e particolarmente aggressiva.
Il successo dell’evento non poté comunque cancellare con un colpo di spugna tutti i problemi. E rispolverare nella campagna pubblicitaria il soprannome di “fair city”, che Dublino vantava da almeno un paio di secoli, da quando si era diffusa la canzone popolare “Molly Malone” (il personaggio della famosa statua, ovviamente), che nei primi versi recitava In Dublin’s fair city/ where the girls are so pretty, era solo un gesto di affetto. Pari a quello che il già citato Bolger, nato nel sobborgo di Finglas, espresse a favore della città nella sua interezza, quando affermò che negli anni ottanta aveva continuato “ad amarla in tutta la sua bruttezza”. Nei ricordi di un altro autore irlandese, John Banville, dublinese d’adozione, lo sguardo di sé bambino che dalla provincia ogni 8 dicembre andava con la famiglia a fare compere e a vedere le luci di Natale nella capitale ci restituisce la stessa immagine negativa che si apre però in questo caso ad una dimensione fantastica: “Che la città in sé, la vera Dublino, fosse grigia e brutta, in quegli anni Cinquanta afflitti dalla povertà, non intaccava il sogno che ne avevo”. Il sogno di vedere un luogo tanto diverso dalla cittadina in cui viveva, “un luogo di magiche promesse”.
Quelle promesse sono rimaste magiche solo per gli sguardi candidi.
Per trasformare la bruttezza in attrattiva il percorso si è rivelato lungo e paradossale. Ancora oggi ampie parti del centro, con maggiore evidenza nel suo lato nord (quel north side che rivendica da sempre una sua precisa identità), sono derelitte. E più di una porzione di città riqualificata è sì parsa risanata, ma il prezzo è stato sacrificare l’identità architettonica e pure sociale del suo passato migliore.
Con la linea guida dettata dal governo di offrire sgravi fiscali e a seguito della costruzione dell’International Financial Services Centre (IFSC) nella zona portuale, banche straniere e società finanziarie hanno iniziato a trasferire i loro uffici qui. Seguite a ruota dai colossi dell’IT. L’area riqualificata si è poi estesa e ha visto nel tempo il recupero dei vecchi magazzini, la costruzione di edifici residenziali e di uffici, di alberghi e centri congressi.
Si sono creati due grandi centri commerciali nel cuore della città. Si sono adottate insomma delle misure che preludevano a quel periodo di rilancio dell’economia nazionale che assunte le proporzioni di un boom ha portato a far girare nel mondo la suggestiva e roboante definizione di “Tigre celtica”, inventata da Kevin Gardiner della banca di investimenti Morgan Stanley nell’estate del 1994, per sottolineare le affinità con i modelli delle rampanti economie asiatiche.
Che gli organizzatori delle celebrazioni del Millennio avessero mescolato orgoglio e kitsch, tradizione e speranza di un futuro migliore, è indubbio. Ma è altrettanto vero che le mosse azzeccate fino a quel momento, portarono Dublino ad essere designata Città Europea della Cultura nel 1991, a suggello dei lavori di riscoperta, tutela e recupero del proprio patrimonio, grazie proprio ai fondi stanziati dalla UE. Un’attenzione alla storia e ai suoi simboli che in passato era stata trascurata colpevolmente e che ora era spendibile in termini di credibilità internazionale.
Gli anni novanta sono stati in realtà il decennio di svolta per l’immagine dell’Irlanda nel suo insieme, certo a traino dublinese. Il seguito planetario delle band storiche e l’affermazione di nuovi nomi, il successo dei libri di Roddy Doyle e delle simpatiche commedie tratte da questi, l’esplosione del fenomeno Riverdance, che dal palco dell’Eurovision Song Contest ha reso sexy l’arte della danza tradizionale irlandese, sono esempi della diffusione della cultura irlandese nel mondo. Una diffusione inarrestabile, che per alcuni commentatori ha segnato l’inizio di una profittevole commercializzazione della tradizione locale a discapito dell’atteggiamento opposto sin qui dominante, volto appunto alla conservazione. In questo scenario Dublino è stata vista come la perfetta location per stabilire un contatto con il mondo degli U2, per scovare la perfetta pinta di Guinness dentro o fuori Temple Bar (area scampata proprio negli anni a cavallo del 1988 ad un progetto che ne avrebbe fatto un terminal per autobus) e per scoprire che alcuni dei suoi landmarks erano fotogenici, anche in un’epoca non ancora condizionata dall’ansia di condivisione che smartphone e social avrebbero poi diffuso globalmente.
A distanza di quattro decenni non si può dire che il lavoro, per quanto riguarda l’urbanistica e il decoro, sia stato completato. Dublino (ma il fenomeno riguarda un po’ tutte le città irlandesi) è una città che ha ancora molto da recuperare: il fatto che dagli inizi degli anni 60 una parte della popolazione del centro sia stata “trapiantata” in quartieri satellite, distruggendo il tessuto sociale e svuotando edifici che solo in parte sono stati ristrutturati, ha portato nel 2023 l’autorevole giornalista economico dell’Irish Times David McWilliams a reclamare leggi che impongano ai proprietari di immobili abbandonati di farsi carico del peso economico e sociale che l’incuria comporta. Perché l’abbandono attira delinquenza, “deprime un’area, portandola a maggiore decrepitezza, perdita di reddito e distruzione di ricchezza”.
Il mosaico del suo tessuto urbano, in cui convive il passato e la modernità, il nuovo e il decrepito, ritrae una città brulicante e multietnica che anche grazie alle cicatrici e ai tratti spigolosi che i suoi mille anni o poco più le hanno messo addosso e che solo delle buone idee e molta buona volontà potranno modificare in futuro, si mantiene giovane. E giovane è destinata a rimanere ancora a lungo.