Pattinare sul ghiaccio sottile del nuovo anno

Pattinare sul ghiaccio sottile del nuovo anno
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Il pomeriggio del 31 dicembre Antonio Desio si era messo d’impegno per trascorrere l’ultimo giorno di un anno faticoso nel modo più consono alla sua indole pigra. E poiché ambiva a sentirsi in armonia con il momento simbolico del passaggio di data, niente gli era parso più attraente che stare seduto sul divano a non pensare ad altro che alla cena con gli amici, avvolto dalla colorata intermittenza dalle lucine natalizie. Per godersi appieno il momento avrebbe dovuto contare su almeno un paio d’ore di isolamento. E per fortuna sua moglie, che era solita rispettare consuetudini consolidate, aveva deciso di non venire meno neppure quell’anno all’impegno di fare visita a parenti e conoscenti. Tutti abbastanza anziani da gradire la formalità di ricevere auguri calorosi e persino euforici, o come avrebbe detto lui, stucchevoli. Del resto il periodo delle feste galvanizzava la donna e le metteva addosso un’energia che aveva bisogno di sfogo, dato che in casa gli addobbi erano ormai curati in ogni angolo o parete disponibile, e la cucina, intesa sia come ambiente domestico che l’atto di cucinare, la respingeva.
Antonio era comunque partecipe delle buone intenzioni della donna e infatti, con un’ipocrisia evidente anche a sé stesso, come gli anni precedenti la pregò di recare anche i propri auguri.
Quel giro di visite aveva anche un cascata di effetti positivo, in quanto la donna sarebbe tornata felice della propria azione e inorgoglita dalla consapevolezza che il mondo era stato ingentilito da tanti buoni propositi: per lei gli auguri generici erano davvero auspici di ogni bene. Inoltre in quel tempo trascorso fuori casa la sua eccitazione sarebbe svaporata come il fondo della bottiglia tre giorni dopo il brindisi. E non solo: rientrata carica come sempre di storie abbastanza insignificanti di figli molto in carriera e di nipoti precoci e assai dotati, si sarebbe pure dimenticata delle sue piccole ossessioni. Tra l’Ultimo e Capodanno Antonio era dunque certo che non gli avrebbe chiesto di controllare se l’umidità in casa fosse pericolosamente bassa, o la temperatura troppo alta, o magari che gli spifferi dei vecchi infissi non fossero stati tamponati a sufficienza nel caso in cui il vento dal lago avesse rinforzato. Anzi, sarebbe stata così fiduciosa nel futuro e desiderosa di condividere il suo ottimismo che non avrebbe schierato miele, olii essenziali e tisane per celebrare il rito serale della difesa preventiva della salute di entrambi.
Dunque Antonio quel pomeriggio disponeva di una quantità di tempo e di spazio domestico da usare a piacimento. Immerso nel silenzio, interrotto solo da lontani botti di qualche impaziente della mezzanotte, era sicuro che si sarebbe rilassato. Anzi, di più, avrebbe trovato la giusta concentrazione. Perché questa volta non avrebbe goduto della propria inattività: non pensare e non fare erano sì privilegi rari, ma temeva che quel vuoto fosse troppo vulnerabile agli assilli che voleva tenere a distanza.
Decise perciò che avrebbe letto. Forse uno di quei romanzi in cui riponeva esagerati e spesso non corrisposti desideri di evasione (una mancata corrispondenza che era dovuta più al suo progressivo calo di interesse che alla scarsa presa della trama). O forse avrebbe scelto qualcosa che non lo avrebbe vincolato ad estendere la frequentazione oltre quel pomeriggio. E in effetti ultimamente i suoi acquisti gli avevano procurato un’ampia scelta di volumi che avrebbe potuto solo sfogliare o leggere piluccando qualche pagina. Si trattava di libri con un ricco corredo di immagini, aggiudicati in aste on line - che a tutti diceva incredibilmente vantaggiose - la cui antichità sopravanzava più stringenti motivi di interesse: saperli vecchi di centocinquanta o duecento anni gli smuoveva suggestioni che aveva difficoltà a condividere, tanto più che nemmeno lucide argomentazioni ben sostenute avrebbero saputo opporsi all’incredulità, o spesso all’indifferenza, dei suoi interlocutori.
Peraltro amava quei libri anche solo per la loro presenza: ne osservava le coste elaborate, i caratteri dorati e le incisioni, i segni di usura sulle rilegature in pelle. Per estrarli dagli scaffali della libreria in salotto si applicava con i gesti delicati che immaginava fossero propri del bibliotecario di una qualche preziosa collezione. Ma mentre ne disponeva già pregustava il momento in cui avrebbe ripristinato l’ordine che stava manomettendo, fino a che l’ultimo sguardo alla parete gli avrebbe restituito un colpo d’occhio di volumi perfettamente allineati. Solidi e rassicuranti grazie alla loro pressoché eterna consistenza materiale.
Aveva calcolato di avere ore davanti a sé. Indipendentemente dal rientro della moglie, sapeva che alle 19 si sarebbe dedicato al piatto che con gli amici aveva concordato di cucinare per condividerlo quella sera. Ma sul piano di lavoro aveva già disposto gli ingredienti. E sapere che era tutto già lì, la vaschetta di carne macinata congelata, uno spicchio di parmigiano, il barattolo del peperoncino tritato, un mazzetto di prezzemolo e un uovo dentro un bicchiere da liquore (se avesse avuto un più spiccato animo social avrebbe potuto postare una foto zenitale di quella composizione di forme cui senza pensarci aveva donato una pregevole geometria), pronti a diventare polpette, gli dava la certezza che avrebbe potuto disporre del tempo dedicato a sé senza l’ansia di doverne sprecare altro per far partire l’attività in cucina.
Tuttavia tanta precisa organizzazione pratica e mentale non bastò. Il pensiero che rumoreggiava da giorni e che era riuscito a tenere a bada concentrandosi sul riposo e sugli altri piaceri delle feste imminenti era riuscito ad infilarsi in mezzo a quell’oasi di perfezione domestica.
Anzi, era stata proprio la consapevolezza di quella perfezione a richiamare esattamente ciò che poteva rovinarla. L’ospite indesiderato era lì ad aspettare proprio che cominciasse la festa del suo pomeriggio libero, per entrare senza permesso con l’unico scopo di ricominciare a tormentarlo. Ed era così ben preparato che era pronto a farlo intestandosi l’autorevolezza della Realtà in persona. Che infatti, con la voce ferma di chi non ammette repliche, gli sussurrò come stavano le cose: “è inutile che scappi, è inutile che cerchi un paio d’ore d’evasione, arriverà il 3 gennaio e ci sarai dentro fino al collo.”
In effetti la promozione che lo aspettava alla riapertura dell’azienda che l’aveva assunto vent’anni prima, lo angustiava. E lo angustiava in un modo con cui non riusciva a fare pace nemmeno pensando all’aumento di stipendio.
Aveva confessato ad un amico che non si sentiva adatto a quel ruolo, che non voleva altre responsabilità, che di quell’incarico, a dirla tutta - lo sforzo di sincerità gli aveva fatto inzuppare di sudore il colletto della camicia - non gli importava niente, ma proprio un accidente di niente.
Ma i giochi erano fatti, aveva subito la pervasività dei capi e lui aveva firmato.
Avrebbe avuto dieci persone sotto di sé. Le stesse persone che fino ad allora erano stati colleghi sarebbero diventati dei sottoposti da guidare, motivare e soprattutto ascoltare. Lamentele, problemi, esigenze. Avrebbe smesso di fare il suo lavoro per coordinare quello degli altri. Rispondendo a telefonate, a mail, a messaggi. Quanti di più rispetto a quelli che riceveva adesso? Il triplo, il cubo? O forse un numero infinito che avrebbe inondato anche il tempo prima dell’orario di lavoro - mentre magari era sotto la doccia, o mentre tuffava il pane e marmellata nel latte - e poi pure le ore successive, senza tregua, senza pietà?
Più ci pensava, più viveva questo cambio come una lacerazione da cui sarebbe uscito psicologicamente distrutto. Ma senza una mente sana forse anche il fisico non avrebbe retto. Avrebbe iniziato a zoppicare, si sarebbe ammalato, sarebbe caduto dalle scale e poi morto.
Poggiò una mano sulla torre di libri che l’ispirazione ancora intatta gli aveva suggerito di prelevare dagli scaffali. Lui sul divano e quei tomi antichi accanto.
Ma ormai l’incanto del pomeriggio si stava dissolvendo.
Altro che perfezione. Era riuscito a stare lontano dalle ricadute della sua vita professionale solo il tempo di illudersi di potersi dedicare ai propri interessi. In totale serenità, per giunta.
Volevo solo stare tranquillo un paio d’ore…
Lasciamo stare i libri, pensò.
Non tutto era perduto: aveva un piano b.
Del passato di studente universitario rimpiangeva per lo più il tempo che riusciva a ritargliarsi per ascoltare musica. Ad alto volume, con le cuffie, prima di cena (quando la cena, grazie alla dedizione di sua madre, era solo un piacere e non un’incombenza). Quando poi durante la convivenza aveva deposto le cuffie era emerso che i suoi gusti musicali erano incompatibili con la vita di coppia e gli episodi in cui si era concesso quel diversivo si erano ridotti di numero come gli esemplari di una specie in via di estinzione per la distruzione del loro habitat.
Ecco, forse gli era stata data l'opportunità di ricominciare. O anche solo di riconnettersi con quell’io di trent’anni prima. Per un un’ora o poco più. Così, per fare uno scherzo al tempo e scappare in una dimensione parallela, lontana dalle insidie dell’oggi e soprattutto da quelle di domani. La musica era sempre stata un rimedio, una cura con principio attivo ad azione rapida.
Corse nella stanza che conservava una parte della sua collezione di cd, ordinata con i criteri cervellotici di cui andava fiero. Con la fretta di chi teme che i secondi che passano lascino sopraggiungere un imprevisto capace di distruggere anche quel proposito, pescò un cofanetto celebrativo tra i tanti che aveva acquistato. Era uno di quegli oggetti pensati e realizzati per gli interessi e le tasche dei quaranta-cinquantenni. E che prendevano titoli di catalogo usciti negli anni settanta per riproporli in una nuova edizione arricchita di dischi pieni di brani superflui. Ricordava di avergli tolto la pellicola protettiva e di non aver mai ascoltato nemmeno una canzone.
Posizionò con cura i padiglioni delle cuffie, infilò il cd nel lettore blu-ray multifunzione e si predispose a cogliere l’ebbrezza di quel momento.
Un messaggio di un suo collega arrivò per augurargli buon anno.
All’inizio del secondo brano un secondo messaggio: “Buon anno!!! Buon 2020!!!”. Rispose ad entrambi con le stesse formule e il giusto numero di punti esclamativi. Era dalla mattina che riceveva e rispondeva a messaggi di auguri che si distinguevano solo nella scelta dei simbolini di festa, nel numero di bottiglie che esplodevano il loro tappo e nella varietà delle altre amenità codificate dalla messaggistica whatsappiana.
Francamente dopo un po’ tutti sti auguri stanno un po’ sui coglioni, pensò. fissando lo schermo del telefono per vedere quanto tempo passava prima che comparisse il doppio segno di spunta blu.
Il disco era piuttosto debole. I Jethro Tull avevano sicuramente fatto di meglio. E non si ricordava nemmeno se davvero, a suo tempo (quando il tempo era una caraffa di birra che non si svuotava mai), avesse dedicato molta attenzione a quel titolo della loro discografia tarda.
Alla terz’ultima canzone di un ascolto piatto, che né il flauto, né la voce, tantomeno le melodie erano riusciti ad emozionare, un ricordo molto indistinto fece registrare un’increspatura nella linea piatta della sua ricezione di quella musica. Un ricordo che evocò qualcosa che apparteneva sicuramente a quei tempi lontani. Qualcosa che un piccolissimo settore della sua corteccia aveva registrato e tenuto lì. Metti caso che un giorno…
Non che oggi la canzone suonasse fresca o particolarmente intrigante. Ma c’era quel qualcosa di indefinito che creava un contatto tra le fibre nervose e accendeva una fiochissima lampadina.
Provò a tradurre il titolo, perché era lì, nel titolo, che quel qualcosa che lo colpiva aveva improvvisamente concentrato la sua attenzione.
Pattinare sul ghiaccio sottile del nuovo anno, ripeté mentalmente.
Seguì il cantato del ritornello che ripeteva quelle parole.
Ma no, ma no! esclamò in mezzo ai suoi pensieri. Non era del nuovo anno il ghiaccio, ma di un nuovo giorno. Skating away on the thin ice of a new day.
Non che facesse questa grande differenza, ragionò. Del giorno, dell’anno, che differenza faceva? Anzi, la sua versione suonava meglio, c’era qualcosa di evocativo, del resto era pur sempre il 31 dicembre, no?
Pattinare sul ghiaccio sottile del nuovo anno. Ecco, era una bella immagine. Anzi, una bella metafora. Vedi la penna di Ian Anderson che sapeva fare?
Solo che, due secondi dopo, quella metafora parlò e gli rivelò la sua funesta chiave di lettura.
Ma porca di quella vacca, cristo santo, il nuovo anno! Volevo non pensare al lavoro e cosa mi trovo nella testa? Il nuovo anno, il disastro imminente! Un errore così, cos’è? un lapsus… l’inconscio che non sa stare al suo posto!
Angoscia e insicurezza avevano preso la forma di un’immagine dall’apparenza poetica (sì, forse un po’ sinistra, ma che ne sappiamo noi di ghiaccio?) e gli avevano rivelato il suo stato interiore. Pattinare sul ghiaccio sottile…
Ormai era preda di quell’immagine e si vide distintamente. Scivolava su una generica superficie ghiacciata. Un piano uniforme che si estendeva a perdita d’occhio in un paesaggio irriconoscibile perché privo di punti di riferimento. Neppure un albero all’orizzonte, non un tetto col comignolo che sbuffa un pennacchio di fumo. Scivolava tranquillo e sciolto, pur sapendo che prima o poi il ghiaccio non avrebbe retto il suo peso.
Lui sarebbe affondato. Senza scampo.
Il lavoro l’avrebbe annientato. Come da sempre aveva temuto.
Si strappò le cuffie dalla testa, guardò il telefono come se dentro potesse esserci la risposta che cercava.
“Ehi Desio! Ardito come sempre! Buon anno!” I messaggi del collega che a marzo sarebbe andato in pensione poteva riconoscerli anche senza leggere il mittente.
Non poteva essere che tutto si stesse rivoltando contro di lui. Era come trovarsi in un labirinto e finire murato sempre nello stesso punto.
Provò a prendere la metafora per saggiarne la consistenza. Perché certo il ghiaccio era quello che era, ma forse gli era sfuggito qualcosa. Le metafore del resto vanno maneggiate con attenzione, vanno interpretate nelle loro sfumature. E allora, ecco, vedi, magari il ghiaccio è sottile perché è del nuovo anno e poi, un po’ alla volta, una notte di gelo dopo l’altra si ispessisce e tutta la storia cambia…
Ma la Metafora non era fatta di materia inerte e poiché la vedeva diversamente da lui, gli suggerì come stessero le cose: “pensa ai cambiamenti climatici, ci sono no? Ecco, allora lascia perdere ‘ste fantasie ottocentesche, è già tanto se un po’ di ghiaccio sotto i piedi ce l’hai.”
Stava sprofondando nello sgomento. C’era qualcosa di orrorifico nel dilagare di quel suo pensiero che fino a pochi minuti prima credeva di aver tenuto a bada. Di quel pensiero che, a dirla tutta, aveva avuto la presunzione di poter spingere dove la sua capacità di confinare i problemi riusciva a gestire mille altre seccature. E adesso, invece, libero e senza ostacoli, faceva danno ovunque, dimostrando tutto il suo potenziale distruttivo.
“Felice 2020 di pace e serenità”, gli augurava la collega milfona.
Mi prendono per il culo, pensò. Sanno che sto di merda e mi sfottono. Sanno che non posso farci niente, che mi hanno in pugno…
Afferrò un volume con la forza con cui avrebbe sollevato una cassa di bottiglie d’acqua. Masticò una sequela di improperi che impastarono bestemmie e un trito repertorio di turpiloquio rabbioso. La frustrazione di mesi cercava sfogo in una loquela tossica sproporzionata alla circostanza.
Iniziò a sfogliare le pagine ingiallite di un tomo che sul frontespizio gli ricordava due elementi decisivi che l’avevano spinto a completare l’acquisto: il titolo, "Magasin pittoresque”, che nell’aggettivo prometteva una significativa presenza di immagini (disegni e non foto, dato che l’industria tipografica non era ancora in grado di riprodurre queste ultime) e la data di pubblicazione, il 1836. Un anno adeguatamente remoto.
Dunque sfogliò una pagina dopo l’altra e le immagini scorrevano senza che vi prestasse attenzione. Si accorgeva a malapena dello spessore della carta sotto i polpastrelli, una sensazione che altre volte l’aveva estasiato.
Lentamente il ghiaccio sottile e le sue insidie psicologiche cominciarono ad allentare la loro presa emotiva. E allora riuscì a notare che ad accompagnare gli articoli c’erano riproduzioni di quadri, di paesaggi, di palazzi. Qualche mappa, animali esotici, busti e statue, addirittura tabelle attraverso cui apprendere i rudimenti della contabilità. Era una rivista che doveva informare, incuriosire ed essere anche di una qualche utilità pratica (la contabilità, pazzesco). E lui, più sfogliava più dedicava attenzione a quella generosa sequenza di contenuti per un pubblico distante così tante generazioni da essere ormai sconosciuto agli eventuali discendenti. Dentro un libro che era arrivato a lui chissà dopo quanti passaggi di mano.
Ogni tanto, incuriosito dall’illustrazione, cercava il titolo dell’articolo per capirne il senso. E quando si imbatté nel resoconto della spedizione artica del capitano Ross, una parte primitiva del suo cervello gli impose di fermarsi.
Quando poi anche il resto meno arcaico della sua materia grigia si attivò, Antonio capì la ragione di quell’arresto.
Una storia di ghiacci. Con tanto di mappa dell’Artico con l’itinerario di questa spedizione di cui non sapeva alcunché. Capì, col suo francese delle medie, che si trattava della seconda del 1829, che seguiva quella fatta nel 1818, alla ricerca del mitico passaggio a nord-ovest, a bordo della nave Victory (Victoire, nel testo: i francesi sono sempre stati francesi, commentò) e che terminò con il rientro a Londra solo nel 1833. Il tempo trascorso impegnò l’equipaggio in peripezie che da quello che poté capire da una rapida lettura, erano state tante e disperanti. Al punto che Ross e i suoi passarono quattro inverni intrappolati nella banchisa durante i quali, pur avendo potuto contare sul sostegno delle popolazioni locali, furono costretti a razionare le sempre più esigue scorte di cibo.
Quando finalmente in primavera il ghiaccio iniziò a spaccarsi, la nave si rimise in moto facendosi largo tra i lastroni.
Antonio a questo punto era determinato a non perdersi nessun dettaglio. Stava per correre a cercare il dizionario di francese, che quasi certamente non avrebbe trovato, poi si ricordò che le risorse della rete potevano supplire ampiamente quella mancanza.
La Victory avanzava, ma non era nelle condizioni di impegnarsi nel lungo viaggio di ritorno. Ma ecco l’evento insperato diventare realtà. Ad un certo punto della navigazione l’equipaggio avvistò un’imbarcazione e la sorpresa che li attendeva era a dir poco romanzesca.
Disponendo del significato di tutte le parole, il testo che lesse recitava:
Quando infatti il capitano Ross chiese il nome della nave all'ufficiale di bordo che era giunto su una scialuppa a soccorrerli, si sentì rispondere: "Questa è l'Isabelle di Hull, commissionata nel 1818 da John Ross, durante il suo primo viaggio in questi mari." "Ma sono io John Ross, e questi uomini sono l'equipaggio della Victory.”. "Ci stai prendendo in giro?" chiese all'improvviso l'ufficiale, "Sono passati due anni dalla morte di Ross." Evidentemente, pensò Antonio, a Londra li aspettavano molto prima e ad un certo punto hanno pure smesso. Poi proseguì (che storia pazzesca): Tuttavia non fu difficile convincere questo marinaio che gli sfortunati che aveva davanti, pallidi, scarni con lunghe barbe, ricoperti di sporchi scampoli di pelli di animali, erano davvero l'equipaggio della Victory. Tornò immediatamente per informare il capitano dell'Isabelle; e mentre le lance di Ross si avvicinavano, l'intero equipaggio della baleniera (perché adesso questo faceva la nave, aveva dedotto), montato sulle sartie, le salutò con tre acclamazioni. È inutile descrivere la scena di gioia e di confusione avvenuta sulla nave, né la cura con cui furono circondati i nuovi arrivati.
Antonio fissò la mappa, questa volta dando forma alla sagoma scura di un veliero nel bianco uniforme del suo artico immaginario. Vedeva anche quei derelitti sopravvissuti (solo quattro in realtà erano morti durante gli anni della spedizione): avevano cercato il mitico passaggio a nord-ovest senza trovarlo, ma portavano a casa una storia da raccontare. E tutti li avrebbero ascoltati per mesi, e forse avrebbero pure perdonato se si fossero soffermati più e più volte su quanto coraggio, intraprendenza, resistenza fisica e psicologica, sacrificio e senso dell’onore li avesse pervasi e guidati e spinti a non mollare. Avevano sfidato l’impossibile e non ne erano stati sopraffatti. Pur non avendo raggiunto l'obiettivo della missione, avevano comunque ampliato la conoscenza umana (e, secondo la didascalia, la mappa era lì a dimostrarlo).
Ecco, pensò deponendo il libro con la delicatezza riservata ad un codice miniato, con questa storia posso congedare l’anno e affrontare quello nuovo. E mentre rovesciava la carne trita dalla sua vaschetta nella ciotola di metallo, aggiunse spunti motivazionali: doveva accettare la sfida con spirito costruttivo, sarebbe stata dura ma nessuno si sarebbe fatto male, nessuno avrebbe rischiato niente. Lui avrebbe fatto ciò che era nelle sue facoltà. Non era un capitano Ross, ma era stato comunque scelto per guidare un gruppo. E quel gruppo avrebbe ottenuto gli obiettivi che l’azienda si prefiggeva, passo dopo passo, ghiaccio o non ghiaccio.
Iniziò a impastare pervaso da una serenità strana (in parte inaspettata, in parte irreale), poi sentì la porta aprirsi ed era pronto ad accogliere la moglie con un sorriso benevolo (che avrebbe voluto comunicare più di quello che la sua mimica era in grado: non sai che pomeriggio ho passato ma adesso in qualche modo che non sto a spiegarti ne sono fuori).
“Oh, ma sai cosa mi ha detto il Carlo?” già dalla soglia la donna parlò con un tono di voce non solo alto per farsi sentire, ma anche che tradiva un’emozione diversa da quella che si sarebbe aspettato al rientro dal suo giro di visite.
Chi era Carlo, prima di tutto.
“Ha saputo una cosa tremenda”, disse sulla porta della cucina, ma con lo stesso volume di voce che aveva usato dal corridoio.
“Carlo chi?”, chiese serafico, molto determinato a non far capire di aver colto l’agitazione della donna.
“Ma Carlo! Carlo Scarpa, il figlio di Angelo, mio cugino. Lavora a Bruxelles, ricordi?” Vagamente, ma non lo disse. Cominciava ad essere attraversato e un tantino scosso dall’urgenza che la moglie irradiava.
“Un comunicato dalla WHO, proprio oggi…”
“Di cosa?”
“La World Health Organization.”
“E allora?”
“E’ stato individuato un nuovo virus in Cina.”
Antonio, che aveva cominciato ad irrigidirsi, si rilassò di colpo. In Cina! Ma dai, per favore!
“Dice che girano voci che dobbiamo stare attenti.”
Non aveva dubbi che la moglie avrebbe cominciato a farlo, facendo visita alla farmacia - se già non l’aveva fatto - e a raccogliere informazioni su cure e rimedi.
A quel punto avrebbe voluto cambiare discorso, parlarle del capitano Ross con un minimo di enfasi, forse di commozione. Lei non lo avrebbe ascoltato, ma quantomeno avrebbe messo uno strato di parole tra lo stato emotivo della moglie e il suo spirito positivo, appena ritrovato e ancora fragile.
Ma rimase in silenzio, fissando la carne che sotto l’impulso delle sue dita assorbiva lentamente l’uovo crudo e il formaggio grattugiato.
Dal salotto, dove i suoi preziosi libri occupavano ancora una seduta del divano, sentì la moglie iniziare un giro di telefonate allarmate che, avendo riconosciuto i primi destinatari, immaginò destinate a propagarsi di conoscenza in conoscenza.
E a diffondere un’agitazione che chiunque dotato di un po’ di raziocinio avrebbe capito essere immotivata.