Ritorni
Arrivo per la prima volta a Dublino nell’estate del 1990 e della città non potrebbe interessarmi di meno. Sono partito per cercare l’Irlanda più autentica, secondo un immaginario per lo più plagiato dalla promozione turistica che per decenni ha riassunto una quantità di pittoresco irresistibile nel peraltro discutibile marchio di “isola di smeraldo”. Con quei grandi spazi poco popolati, con le coste, le spiagge e le brughiere, con i piccoli paesi con i tetti di paglia e con le isole sperdute c’era da sognare ad occhi aperti un mondo diverso che, senza vergogna, avrei potuto definire incontaminato. Credo che solo fate, folletti e leprecauni non contribuissero al quadretto idilliaco, ma è possibile che li avesse tagliati fuori un filtro razionalista che avevo aggiunto io (ero ingenuo, certo, ma con misura). C’era insomma forte il desiderio di lasciarsi alle spalle la civiltà mediterranea, affollata e caotica, per questo altrove un po' malinconico che prometteva di rinnovare ad ogni scorcio il senso di meraviglia, di libertà e... E poi chissà che cosa mi passava per la testa a vent’anni.
Ad emozionare e a confondere la percezione della realtà c’era anche la musica che girava allora, ma non tanto gli U2 già glorie mondiali e comunque gente di città (Dublino, per giunta), ma tutto il repertorio definito tradizionale e variamente declinato. Al riguardo però ero partito preparato, grazie alle indicazioni di Cristina Cona, autrice della compatta e anche un po’ severa guida CLUP sull’Irlanda, che metteva in guardia dal “fiorente sottobosco di prodotti dello pseudofolklore”, quello con i dischi dalle copertine con i trifogli e i riferimenti alla Emerald Island (appunto) o alle “green shores of Ireland”, dunque verdi, enfaticamente verdi, a fare da specchietto per turisti un po’ allocchi (che all’epoca poteva suonare come un giro di parole per dire “americani”).
Ma per raggiungere questo mondo vagheggiato, allora più che adesso, era inevitabile la tappa in città. E vuoi per la deferenza per il suo status di capitale della nazione, vuoi soprattutto per la necessità che si aveva di prendere confidenza con la rete dei trasporti (gli orari erano stampati in libretti che in quell'era avanti internet trovavi solo in loco), ti sentivi obbligato a passarci qualche giorno.
Di quella visita ricordo ben poco, su tutto la scritta Guinness sul ponte ferroviario che attraversa Drumcondra, l’arteria principale che scende in città da nord, dove sta l’aeroporto. Un frammento di memoria così ingenuo da farmi quasi tenerezza. Ma bisogna dire che il marchio di birra allora aveva qualcosa di esotico in più di adesso: era non solo sinonimo di birra irlandese (le alternative erano poche e una mano bastava a contarle) e trovarla dalle nostre parti non era scontato come adesso, ma rappresentava l’Irlanda tout court.
Per anni ho conservato di quel paio di giorni un ricordo sintetizzato in una dominante cromatica, quel grigio che in effetti altri osservatori all’epoca attribuivano alla città, ma che ritengo non sia stata una reale percezione sensoriale, quanto una reazione emotiva dettata dal fragore del traffico, dal cielo coperto, dal caos architettonico e dall’irrequietezza che spingeva a muoversi per andare altrove. Del resto con il pregiudizio che mi portavo dietro, era impossibile iniziare ad apprezzare una città che è sì migliorata col tempo, ma non è mai diventata inconfutabilmente bella. Avevo bisogno di un approccio completamente diverso e di uno sguardo nuovo. Insomma, che trovassi delle motivazioni. E comunque è stato utile che negli anni seguenti anche io cambiassi un po’.
Ci sono tornato dodici anni dopo, solo perché mia sorella ha pensato bene di mollare tutto e di trasferirsi lì. La scusa di perfezionare il suo inglese è durata per un po', poi si è messa a fare carriera ed è stato chiaro a tutti che cosa sarebbe successo. E quello che è successo è durato otto anni. Anche per me è stata l'occasione perfetta per cominciare da capo: andare su e giù dall'Italia tutte le volte che potevo mi ha dato un numero sufficiente di opportunità di guardare finalmente Dublino con meno diffidenza. Ma ho dovuto camminare molto e alimentare la curiosità a piccole dosi. Avere poco tempo a volte rende più semplice farsi un'idea di una città che averne molto. Perché in un weekend collezioni il meglio che ha da offrire, mentre in una settimana, dopo che quel meglio è già stato archiviato, ti deve venire incontro qualcosa che ti distacchi dall'ovvio. Direi che questo qualcosa è un senso di famigliarità, una percezione fondamentale per il passaggio successivo e più importante: andare oltre il fuorviante vincolo del pittoresco. E questo ovviamente si è verificato mentre passavo da un negozio di dischi all'altro e sì, di pub in pub. La città era grande e sgarrupata ma mai troppo da far perdere i punti di riferimento. E inoltre viveva una fase peculiare, un fermento che la stava trasformando, nell’estetica e nella funzionalità, sulla coda del successo economico culminato nel decennio precedente.
A quel punto non ero più un semplice turista. Ero diventato un turista pendolare. E ho iniziato a vedere sempre nuove cose. Cose che non ho ancora finito di scoprire.
A lungo ho seguito le tracce del tutto evanescenti del passato vichingo, scovando in alcuni dettagli della città moderna l’impronta del suo passato più remoto. Ho imparato ad apprezzare il Liffey che irregimentato da secoli appare docile e indifferente, mentre è stato una via d’acqua, talvolta impetuosa in modo rovinoso, senza la quale Dublino non avrebbe prosperato. E nemmeno sarebbe nata, a dirla tutta. E poiché camminare non basta, è stato necessario rivolgersi alle librerie. Le loro imponenti sezioni di titoli di interesse locale sono state ad ogni visita una miniera cui ho attinto, pagando così lo stipendio ad uno o due commessi. Anche perché ogni sei mesi pareva che ci fossero ancora argomenti su cui scrivere centinaia di pagine e che la storia della città non fosse stata raccontata un numero sufficiente di volte da aver esaurito i dettagli e le sfumature della sua millenaria e a tratti gloriosa esistenza.
Ormai calato nella parte di un turista seriale che vuole sapere tutto, non mi sono reso conto del privilegio di cui godevo indisturbato. A differenza dei residenti - ho realizzato ad un certo punto - vivevo la città senza subirla, prendevo tutto ciò che mi dava e non dovevo concederle niente in cambio. Non il tempo assorbito dal traffico, o quello speso in attesa di un autobus sparito nel nulla, sempre sul filo del rasoio per non arrivare in ritardo in ufficio. Dovevo badare al mio budget, certo, ma non avevo altri obblighi economici, né quello di farmi un’opinione sul sistema sanitario, sulla criminalità o sulla violenza in genere. Non avevo un ruolo, se non quello del visitatore. Vivevo dunque sulla superficie della città eppure avevo iniziato a guardare negli interstizi, a mettere in ordine luoghi e tempi e, insomma, a maturare una pretesa di capire cosa era successo e che aveva dato forma alla città e cosa ancora stava accadendo mentre ero lì: mi sono appassionato alle sue pietre e alle sue ossa, alla sua dignità violata e a quella superstite, mi sono legato ai suoi fantasmi, alle ombre di chi l’ha lasciata per necessità o per delusione, e mi sono avvicinato a chi invece l'ha curata, difesa o cantata. Ma anche solo a chi ci vive e si fa molte meno domande di me. Tutto questo senza mai perdere di vista le tracce delle città precedenti, tanto più quando è stato necessario andarle a scovare dove era impensabile. Per buona parte mi era precluso il punto di vista di chi la vive e deve scendere a patti con la sua natura. E decine di soggiorni brevi non hanno certo fatto di me un dublinese, e come avrebbero potuto. Ma questa lunga frequentazione è diventata una relazione stabile che chiede ancora di essere curata e rinnovata con una periodicità che si riserva ad un amico. Ci potevo tornare per un concerto, per una mostra, perché una libreria storica chiudeva e svendeva tutto ma forse con il tuo contributo si sarebbe salvata…
Se poi succede che a distanza di dieci anni da quando mia sorella è tornata a casa, mia figlia ha preso il volo ed è andata studiare là, non ho più avuto bisogno di scuse e di pretesti per organizzare i ritorni in città: con un motivo in più mi sono ritrovato ancora su questa ruota che gira spinta dalla nostalgia e dagli incastri tra gli impegni, con bagagli leggeri in partenza e pesanti al ritorno (sia detto anche in senso figurato).
Comunque Dublino è una città che puoi visitare in una giornata. Di cui puoi dire di aver maturato un’idea anche solo nelle tappe da un pub all’altro. Puoi buttarti a definirla bella o brutta (come di solito succede quando rendi conto dell'esperienza a chi era a casa) dopo due ore di hop on hop off o dopo una settimana di peregrinazioni al ritmo di ventimila passi al giorno, e probabilmente non dirai niente di strampalato. Poi, certo, ci puoi anche vivere, ma la tua capacità di vederla in profondità (nel tempo più che nello spazio), si indebolisce un po’.
Ma se ci vai e poi ci torni, anche parecchie volte, la guardi con uno sguardo sempre nuovo, ti dai da fare per adattarti ai cambiamenti (a parte le chiusure delle librerie e dei ristoranti polacchi), impari a conoscerla al punto che puoi ricostruirla dalle fondamenta. Che sono nascoste nel fango e nel limo, in parte ancora da indagare. La osservi ringiovanire mentre invecchia. Preghi che nessuno più la devasti di brutture, ma ti rassegni all’evidenza che qualche mostro di architettura gelida sia il prezzo della sua salvezza. Apprezzi la modernità che si fa strada lentamente e ti adegui alle sue contraddizioni. Impari che il centro storico è denso di strati di qualunque cosa, ma che la città nel suo insieme è una geografia complessa la cui estensione ingloba realtà sue peculiari e proprie della cultura di tutta la nazione. Realtà così sfaccettate che ci vuole molta dedizione e molto sentimento per trasporle sulla pagina. Ma che nessun libro può contenere per intero.
Ed è forse per questo che si continua a scriverne.