Tutti i regali di tutti i bambini
All’uscita da scuola i genitori si disinteressarono dei bambini.
Un uomo basso, snello e senza capelli, avvolto in un elegante cappotto blu, aveva infatti attirato la loro attenzione. Distribuiva un foglio colorato che tutti erano molto ben disposti a ricevere. Anzi, si spingevano anche un po’ per accaparrarsene uno.
E se per un solo secondo i bambini avessero smesso di vociare per l’eccitazione dell’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale, avrebbero potuto sentire gli oh e gli ah che le mamme e i papà emettevano mentre tenevano tra le mani quello che si rivelò non essere un semplice foglio, perché aveva più pagine che tutti scorrevano estasiati.
Qualche minuto dopo Vic, all’anagrafe Vittorio Barra, di quarta B, ascoltò sua mamma esclamare “sono sconti pazzeschi, davvero pazzeschi, meno male che non ho ancora fatto la spesa grande!”
Lui che degli sconti non si era mai interessato non fu particolarmente impressionato dalla notizia, ma poiché nemmeno la mamma se n’era mai occupata, perché di solito - cioè sempre - a fare la spesa era papà, si fece l’idea che quando sono pazzeschi gli sconti possono cambiare le persone.
E Vic, in un certo senso, aveva ragione, perché anche ai bambini capitò qualcosa di simile. Scoprirono infatti, prima di raggiungere i genitori e di non essere salutati coi soliti come va? sei stanco? hai fame?, che un altro uomo li stava aspettando davanti al cancello della scuola: un po’ più alto dell’altro e con qualche capello pettinato all’indietro, ma altrettanto distinto per via dello stesso cappotto blu che indossava, anche lui aveva qualcosa per loro dentro un borsone a tracolla giallo.
“Ehi voi, babaducchi!" esclamò con voce potente per attirare la loro attenzione, mentre i primi varcavano il cancello.
L’uomo aveva già allungato alle maestre lo stesso foglio - che non era un foglio - dato ai genitori (e le maestre stavano esclamando gli stessi oh e ah mentre sfogliavano le pagine), perciò non badarono a ciò che stava per fare.
“Una cosa fantastica per voi!” e quei sette o otto, tutti di quinta, che si erano già accalcati attorno all’uomo e che avevano allungato una mano, incuranti delle spinte che ricevevano alle spalle da tutti gli altri che nel frattempo arrivavano, ricevettero un pacchetto dello stesso giallo intenso del borsone.
“Ehi, babaducchi cicciosi, non spingete, ce n’è per tutti.”
A vedere i pacchetti di quel bel colore squillante, grandi circa quanto un astuccio di gomme da masticare, a Vic era venuta una certa smania di raggiungere quel tale, anche se non gli era ancora chiaro cosa potessero contenere e nonostante non trovasse simpatico il modo in cui l’uomo si rivolgeva a loro.
Non avendo però il temperamento di uno pronto a sgomitare, lasciò che la folla di bambini lo superasse e aspettò che un po’ alla volta si diradasse. E mentre attendeva il suo turno osservò gli altri rimirare tra le dita il regalo ricevuto, che pur senza scritte né altri indizi per capirne il contenuto, pareva fosse ciò che tutti stavano aspettando da mesi e mesi.
“Lo senti che buon profumo?” chiese il suo compagno Michele. Ma Vic, che soffriva di una sinusite cronica e aveva sempre il naso intasato, raramente sentiva odori e profumi. Gli pareva in effetti che l’aria a differenza degli altri giorni oggi avesse un qualche sentore, ma non si sarebbe spinto a dire che fosse un profumo gradevole. Poi qualcuno esclamò con un’euforia un po’ esagerata, “E’ il profumo dei grandi affari” e un altro gli fece eco, “dei grandi affari!”
“Ma cosa?” intervenne un terzo.
“L’ha detto il signore, questo è il profumo dei grandi affari!”
A Vic dispiaceva di perdersi qualcosa che eccitava in quel modo tutti gli altri, ma il suo naso funzionava male e non poteva farci niente. Almeno finché non avesse passato due mesi di fila al mare, tra sabbia calda e lunghi bagni, come il dottore gli ricordava a ogni visita.
Quando tra lui e l’uomo col cappotto blu rimase solo Germano Terzi Baroni, a Vic la voglia di prendere quel pacchetto tra le dita aveva raggiunto la stessa intensità di quando d’estate si metteva in coda per il gelato e ogni secondo in più di attesa era una sofferenza. Stava perciò già alzando il braccio verso l’uomo quando l’altro bambino gli si piazzò davanti. E non appena Vic provò ad affiancarlo ottenne che Germano, prima un piede e poi l’altro, scivolasse di lato per murarlo un’altra volta.
“Allora, gli ultimi due babaducchi. Mica tanto cicciosi questi, anzi, direi due miseri stecchetti striminziti.” A Vic scattò qualcosa nella testa.
“Non sono un babaducco” mormorò, qualunque cosa volesse dire.
L’uomo non reagì, ma Germano si voltò e lo squadrò dall’alto della sua statura di giocatore di basket.
“Non fare l’offeso, Vittorino, sono epiteti scherzosi” iniziò a spiegare, con il suo solito modo da primo della classe.
“Ehi, hai mangiato il vocabolario, tu?” gli chiese l’uomo.
“Sono a metà dei sinonimi e contrari. E perciò posso dirle che lei usa un gergo un po’ da caserma, colorito, sboccato…”
“Va bene, va bene” tagliò corto l'uomo allungandogli il pacchetto giallo.
“Me lo dia anche per questo rintronato.” L’uomo esitò un istante, poi posò sulla mano tesa di Germano un secondo pacchetto e chiuse la borsa. Avevano forme diverse: a lui toccava quello più corto e più spesso.
“Bene, stecchetti, buon divertimento. Visto che siete i più svegli, mi raccomando il tatuaggio. Spargete anche voi la voce, tutti col tatuaggio!” e si voltò per andarsene.
Germano, lo sguardo incollato ai pacchetti, non badò che Vic aveva ancora la mano protesa verso di lui.
“Ehi, il mio pacchetto!” protestò Vic.
“Il tuo pacchetto? Mi sa che ti sbagli, l’ha dato a me”, e fece per allontanarsi.
“Eh, no, quello è mio!” esclamò arrabbiato.
“Fila via, nano.”
“Ho detto di darmelo!” stava quasi gridando.
“Nano, pigmeo, puffo. Sciò, fila via!”, ma anziché aspettare che Vic gli ubbidisse, fu lui a trotterellare verso la strada.
“Non è giusto!” ma la voce gli si strozzò in gola.
Vic guardò l’altro allontanarsi indifferente.
Odiava la prepotenza. Ed essere ingannato.
Ma appena si ritrovò solo nel piazzale, mentre alcune maestre si attardavano confabulando qualcosa sui prezzi e le offerte e le occasioni speciali, Vic sentì tornare la calma.
Tieniti pure quei pacchetti, pensò con amarezza, non può esserci niente di che dentro.
Nessuno sconosciuto va in giro a regalare a tutti qualcosa di davvero bello.
La mattina dopo Vic chiese a suo padre di uscire per andare in edicola.
Si inventò qualcosa sulle riviste di storia o di scienze, ma in realtà non voleva altre cose da leggere oltre a quelle che già riempivano gli scaffali della sua libreria (non era mica Germano Terzi Baroni lui). Quello che voleva era interrompere il battibecco tra sua mamma e suo papà circa le offerte del nuovo supermercato. Da una parte la convinzione che fossero pazzesche, dall’altra che fossero assurde, per cui le pazzesche erano una cosa buona, le altre no, per niente. “Siamo un paese di 7000 anime, vuoi forse credere che quelli ti diano la roba così, a quei prezzi, proprio a noi?”
“E cosa cambia?” aveva ribattuto la mamma. “Se fossimo settantamila o settecento faceva qualche differenza?”
“Ti vogliono fregare. Cosa gli importa di noi a questi…” ma pareva che gli argomenti per convincere la mamma e che tanto scaldavano l’animo di papà si fossero fermati tra le sue idee.
Sulla via del centro Vic scorse alcuni bambini della scuola. Tra questi Michele, che confabulava con altri quattro. Era una scena insolita, anche se era un giorno di festa, perché era difficile incontrare tanti bambini per strada. Perciò disse a suo papà che li avrebbe raggiunti per scambiare due chiacchiere con loro. Ma il va bene che il papà mormorò poteva anche lasciare intendere che non avesse ascoltato bene le parole del figlio.
Michele lo salutò con un cenno, ma si vedeva che non voleva perdere il filo del discorso. E gli altri erano troppo impegnati a discutere per alzare la testa verso di lui.
“Allora bisogna fare così, chiaro a tutti?” disse il bambino che Vic sapeva essere uno bocciato perché in quarta si era rotto gambe e braccia cadendo in una gara di bici da cross.
“Così come?” chiese sussurrando all’amico. Ma non abbastanza piano da non essere ascoltato dagli altri
“Ehi, tu, mostra il tatuaggio!” gli intimò il bocciato.
“Quale tatuaggio?” chiese stupito Vic.
“Come quale tatuaggio” ruggì l’altro esterrefatto.
Al che tutti alzarono la manica del giubbotto o del piumino e mostrarono cosa decorava il loro avambraccio poco sopra il polso.
Vic sgranò gli occhi, era molto sorpreso della reazione di tutti quanti, compreso Michele. E ancora di più nel vedere che sulla pelle di quei bambini c’era il disegno di un carrello della spesa luccicante ricolmo di sacchetti della spesa. Di una tinta di giallo che ricordava chiaramente qualcosa.
“Niente carellomega? Allora via, non sei dei nostri. Vai a scrivere una stupida lettera a Babbo Natale, tanto non riceverai niente quest’anno.”
Michele si premurò di accompagnarlo di qualche passo distante dal gruppo.
Dopo che Vic ebbe deglutito un groppo in gola che solo un paio di anni prima si sarebbe sciolto in un pianto desolato, l’amico gli accennò sottovoce come stavano le cose.
“Vogliono… vogliono abolire Babbo Natale!”
“Abolire?”
“Niente regali la notte di Natale!”
Il tono eccitato di Michele infastidiva Vic, più che preoccuparlo. Cosa diamine stava dicendo?
“Non vogliono regali? Nessuno di loro?”
“No, no! Niente regali a sorpresa. Si va a comprare tutto da Omegacarrello!”
La fine intelligenza di Vic ci mise un nanosecondo ad associare quel nome all’insegna vista sul foglio che girava in casa. E in tutte le case, probabilmente.
“E’ per via degli sconti.”
“Pazzeschi?”
“Beh, molto molto spinti, dice mio papà.” Poi dopo una pausa, “e bisogna approfittarne prima che magari cambino idea. O finiscano le cose.”
“Ma cosa c’entra Babbo Natale?”
“Non vogliono i suoi regali. Chissà da dove arrivano!”
“E da dove devono arrivare?”
“Eh, appunto, chissà!"
Quel dubbio non convinse Vic. Così provò a cambiare discorso. “E cosa c’era dentro il tuo pacchetto giallo?”
“Oh, buonissimi! Mini camion di gomma, al sapore di limone, il sapore del risparmio.”
“Non lo sapevo” ma Vic lo disse con scarsissima convinzione.
“E i camion erano gialli, dunque.”
“No, rossi.”
“E negli altri pacchetti?”.
Michele parve pensarci su un po’. “Ma scusa, ma perché tu non hai il tatuaggio?”
“Non lo so!”
“Era dentro il pacchetto.”
“Germano Terzi Barone si è tenuto il mio”.
“Che imbecille!”
“Eh, lo so…”
“Ecco, però, se non hai il tatuaggio devi stare alla larga da quelli là. Sono in fissa con ‘sta cosa, stanno pensando a un piano…”
“Quale piano?”
“Un piano, non so. Ma lascia stare, tu stanne fuori. Anzi, ne devi stare fuori, punto. Senza tatuaggio ci sta che si inventino di farti qualche scherzo.”
Vic si allontanò a testa bassa. E mentre i suoi passi si facevano svelti e si avvicinava al padre assorto davanti ad una vetrina, l’unica cosa che sperava era di non sentirsi chiamare da qualcuno del gruppo. Ci mancava solo che lo prendessero in giro davanti al genitore. Così da dovergli spiegare qualcosa che nemmeno lui capiva tanto bene.
Appena fu a casa non fece in tempo a rilassarsi che sua madre accolse il padre sventolando quel foglio profumato, ribattezzato adesso “volantino”. E così la discussione interrotta poco prima ricominciò da capo.
Approfittando della distrazione dei due, Vic, che non si era ancora tolto il piumino, sgattaiolò fuori e andò a suonare alla porta di Francesco Tigna.
Il suo compagno di classe faceva sempre un po’ fatica a rispondere alle domande, come se dovesse pensarci due secondi più degli altri, e in più era sorpreso di vedere il compagno di classe alla porta. Dopo qualche momento di esitazione a bocca aperta, gli confermò ciò che gli aveva confidato Michele: tutti erano d’accordo di impedire a Babbo Natale di consegnare i regali. “Tutti quelli col tatuaggio sono d’accordo” disse alzando la manica del pile verde per mostrare il disegno del carrello che ormai Vic conosceva bene. Ma perché erano tutti fissati con quel tatuaggio?
Le cose, comunque, si mettevano male. Quella follia non stava risparmiando nessuno. Eppure gli era difficile stabilire come prendere questa cosa: se gli seccava di essere stato escluso, forse l’unico di tutta la scuola; o se invece era una fortuna non avere a che fare con un’idea tanto assurda e pazzesca e proprio fuori di testa come questa.
A tranquillizzarlo c’era il fatto che la sua lettera fosse stata già spedita da un pezzo. Inoltre si era sempre comportato bene sia in casa che a scuola, le sue richieste erano sensate, un paio di giochi soltanto, e lui non aveva niente contro Babbo Natale. Ecco, magari solo un po’ di soggezione, ma del resto come si fa con un personaggio così?
Più tardi, mentre i genitori erano impegnati in telefonate con i loro amici, fece una corsa fino alla casa di Michele. C’era il rischio di trovarlo in compagnia degli altri, ma conoscendo l’amico sapeva che era uno che non invitava a casa molto volentieri.
Infatti lo trovò da solo, in maglietta, il tatuaggio che balzava all’occhio ancora più vistoso.
“Beh, senti… ma questa cosa di Babbo Natale?” L’amico lo fissava senza dire niente. “Voglio dire, cosa hanno pensato di fare in pratica?”
“Io non ti ho detto niente, va bene?” Vic annuì, sapeva mantenere un segreto. “La notte del 24 si esce tutti quanti, con delle torce, dei campanelli, della musica. Si fa confusione, insomma.”
“Ma perché?” lo chiese ma la risposta a questo punto avrebbe saputo darla da solo.
“Per spaventare le renne! Gli elfi! Per non far arrivare Babbo Natale, ovvio no?”
“E se arriva lo stesso?”
“Impossibile. Non viene se i bambini sono svegli. Qualcuno vuole anche chiudere il caminetto. Tirare giù le tapparelle. Staccare le luci all’albero…”
“Ma dici sul serio?” Il dubbio di essere vittima di uno scherzo gli parve la spiegazione migliore della verità cui aveva creduto fino a quel momento.
“Eh, certo, d’ora in poi si farà così. I regali ce li andiamo a comprare da Omegacarrello. C’è anche una raccolta punti e quando ne hai mille ti danno…”
“Ma perché il tatuaggio?” lo interruppe, perché delle cose fantastiche di quel supermercato ne aveva già abbastanza: gli pareva di avere davanti la versione in scala ridotta di sua mamma.
“No, è che… ci hanno proprio detto di metterlo. È bello. Siamo una squadra, così…”
Ma Vic aveva smesso di ascoltare l’amico.
Non aveva proprio alcun rimpianto di non fare parte di quella squadra.
Vuoi vedere che senza saperlo Germano mi ha fatto un regalo?
La mattina del 24 Vic si svegliò moderatamente felice. Era la vigilia, la casa sarebbe stata libera per un po’ - e si sarebbe goduto una puntata di Doctor Who in santa pace -, perché i suoi avevano smesso di beccarsi e sarebbero andati a fare la spesa. In quel posto nuovo.
Era successo infatti che suo papà alla fine avesse ceduto: aveva preso in mano il volantino con le offerte, l’aveva osservato a lungo, l’aveva pure annusato e aveva sentenziato: “C’è sempre qualcosa che non mi convince, non si capisce questi da dove saltino fuori, ma andare a vedere non costa nulla. E un paio di panettoni ce li portiamo a casa di sicuro”.
A separare Vic dalla piena felicità restava però il pensiero che da qualche parte là fuori molti dei bambini che conosceva stavano ancora pensando di sabotare la consegna dei regali da parte di Babbo Natale.
In realtà era abbastanza convinto che non fosse possibile. Che non fosse possibile, prima di tutto, che dei bambini stiano svegli tutta la notte. Certo che se invece…
Guardò fuori dalla finestra. Se almeno avesse nevicato, forse la possibilità di uscire a giocare li avrebbe distratti e avrebbe cambiato le loro intenzioni.
Il cielo però era azzurro e limpido.
Sul marciapiede al di là della strada, esattamente di fronte a casa sua, una bambina camminava con l’aiuto di un deambulatore. Aveva sentito che in casa erano stati nominati dei nuovi vicini arrivati da poco, ma nessuno aveva fatto riferimento a qualcuno più o meno della sua età. Altrimenti se ne sarebbe ricordato. E comunque nemmeno a scuola l’aveva vista. Di certo avrebbe notato quell’andatura molto incerta, che non si capiva se dipendeva da un problema a una gamba o a tutte e due.
Nel momento in cui si concentrava sul profilo della bambina, questa voltò la testa verso di lui. Vic si imbarazzò terribilmente e scappò dalla finestra come sospinto da una folata di vento. Con il viso in fiamme rifletté che era però probabile che la bambina non l’avesse visto. Come avrebbe potuto se si era girata per caso e lui era scappato via tanto velocemente?
Quando un paio d’ore e due puntate divertenti dopo sentì l’auto dei genitori parcheggiare davanti a casa, si infilò il piumino e uscì.
“Vado a salutare Michele” disse senza aspettare che sua madre scendesse dall’auto. Qualcosa nel profondo del suo cervello gli suggeriva che doveva fare alla svelta e approfittare dell’effetto sorpresa: se riusciva ad allontanarsi prima che sua madre mettesse piede in terra, avrebbe evitato il racconto entusiasta della spesa fatta.
Gli sarebbe bastato fare un cenno in direzione della casa dell’amico perché loro capissero. Lo lasciavano andare senza fare storie perché era un percorso senza semafori, strade da attraversare o altre insidie che i genitori immaginavano spesso per impedirgli altre libertà. Bastava dunque solo avvisarli.
Aveva appena voltato le spalle all’auto che una voce cercò di catturare la sua attenzione.
“Ehi, ma non vuoi vedere quante cose buone abbiamo comprato?”
“Dopo guardo!” disse senza fermarsi e con la mano che salutava rassicurante.
“Abbiamo visto anche tanti tuoi amici là.”
Ma quella frase finse di non sentirla. E accelerò il passo fino quasi a correre.
A Michele fece una domanda che gli era venuta in mente quella mattina.
“Ma a te i regali quando li danno?”
“Li stanno impacchettando adesso mia mamma e mia sorella. Li metteranno sotto l’albero e domani li scartiamo.”
“Ed è divertente uguale?”
“Beh, uguale… uguale no, so già che ci sono. Credo di sapere cosa mi hanno preso… Aspettare di scoprirlo la mattina è un’altra cosa.”
Ecco, lo ammetteva pure l’amico.
Però i regali erano lì. Niente sorpresa, ma i giochi desiderati erano sicuri e pronti da scartare.
Forse aveva ragione Michele, a questo punto.
Solo che se davvero fossero riusciti a fermare Babbo Natale - ma perché farlo se avevano già i regali sotto l’albero? - le conseguenze per lui sarebbero state disastrose: sarebbe rimasto senza regali.
Questa era la terribile verità.
Terribile, tremenda e tristissima, per dirla come Germano. O anche meglio di Germano.
A meno che… Si incamminò verso casa con uno strano presentimento.
Davanti alla sua porta c’era la bambina che abitava di fronte. O almeno così credeva lui.
“Tu abiti qui?” le chiese lei.
“Sì.”
“E ti chiami?”
“Vittorio, ma tutti mi chiamano Vic.”
“Io sono Irène.”
“E un nome francese?”
“Sì.”
“Tu hai scritto la lettera a Babbo Natale?”
“No.”
“Anche tu!” La notizia lo demoralizzò ancora di più: non avendola vista a scuola aveva sperato che Irène si fosse salvata da quella pazzia.
“Anch’io cosa?” anche la bambina era sorpresa.
“Ma niente, sono diventati tutti matti…”
“Io non sono matta. Non ho mai scritto lettere a Babbo Natale.”
“Ah, mi spiace…”
“Sono ebrea, non crediamo in Babbo Natale.”
Vic stava per dire mi spiace un’altra volta, ma si fermò in tempo. Probabilmente alla bambina non dispiaceva. E come se Irène avesse colto l’intuizione di Vic, aggiunse, “Abbiamo altre feste. Anche a me piacciono i regali!” e per la prima volta sorrise.
“Ti fa male quando cammini?”
“No, vado solo lenta come una lumaca” e sorrise ancora. Anche Vic sorrise, anche per il sollievo: dalla risposta della bambina aveva capito di non avere fatto una domanda inopportuna.
“E perché sono diventati matti tutti?”
“Mah, è una lunga storia…”
“Non ho fretta. Solo un po’ freddo.”
“Non vogliono che stanotte Babbo Natale consegni i regali.”
“Ah, capisco, proprio matti!”
“Loro i regali sono andati a comprarseli al supermercato, quello nuovo.”
“Ne parla anche mio papà. Dice che c’è qualcosa di strano. Sono stati troppo veloci a costruirlo, dice”.
“Non lo sapevo.”
“Comunque non era una storia lunga.”
Vic sorrise un po’ imbarazzato. A quella bambina non sfuggiva niente.
“E tu l’hai scritta, la lettera?” gli chiese.
“Sì, certo e l’ho spedita…”
“E se gli altri ci riescono? Se davvero non fanno consegnare i regali a Babbo Natale?” Vic sentì una fitta allo stomaco.
“Se ci riescono… beh, rimango senza regali.” Completare quella frase fu come masticare una fetta di limone.
“Che tristezza.”
Irène aveva proprio ragione. Se la mattina dopo non ci fossero stati pacchetti sotto l’albero, rimaneva che chiedere ai genitori di fare un giro al supermercato.
E come aveva detto Michele, non sarebbe stata per niente la stessa cosa.
“Beh, allora, io vado… tu abiti lì?” e indicò la porta di fronte, al di là della strada.
“Ma già lo sai, prima mi spiavi dalla finestra.” Vic arrossì.
Chiaro, non le sfuggiva proprio niente.
“Non sapevo se era proprio la tua…”
“Sì, lo so, stavo scherzando.”
Si promisero di giocare insieme durante le feste, ma non a palle di neve, se avesse nevicato, perché lei con quelle gambe non ci riusciva bene.
Vic la rassicurò mentendo sul fatto che a lui non piaceva giocare con la neve.
Quando entrò in casa il vociare dei genitori era sconfortante. Dal tono erano felici e soddisfatti. Sicuramente a tavola ci sarebbe stato qualcosa di nuovo quel giorno. Magari orribile, ma nuovo.
E forse una novità ci sarebbe stata anche la mattina dopo. Una di cui ci sarebbe stato ancora meno da stare allegri.
Dopo cena, a base di strane polpette gialle che sapevano di pane vecchio, fagioli e aglio, sua mamma gli suggerì di andare a vedere sotto l’albero.
Il sempre attento cervello di Vic ci mise il tempo che le ali di una mosca impiegano a farla volare per capire che al nuovo supermercato era stato scovato un regalo per lui. E così il suo presentimento si realizzò.
Perciò, senza alcun entusiasmo, si alzò da tavola e lentamente andò a dare un’occhiata, più per accontentare i genitori che per curiosità.
Intravide la scatola di un T-rex da montare con le costruzioni (a me però piacciono i regali incartati, pensò). Riconobbe il verde del dinosauro e il giallo della scatola che tanto aveva desiderato e di cui tanto aveva parlato a tavola nei mesi precedenti, ma entrambi i colori gli sembravano diversi da come li aveva visti in televisione prima e in un negozio poi. Accese anche la lampada a stelo dietro la poltrona di papà, ma quel senso di sbiadito gli parve ancora più evidente. Si avvicinò e il marchio ben riconoscibile anche a distanza si rivelò essere un altro, simile ma diverso: i mattoncini Llegò non erano quelli che conosceva lui. E per quanto si sforzasse di ricordare, non gli pareva di averli mai sentiti nominare.
Tornò in cucina per dare la buonanotte ma sua mamma lo anticipò con un peraltro prevedibile e squillante: “Allora, non ci vuoi giocare?”
“Aspetto domani”, rispose mesto, “quando è Natale.”
“Beh, come vuoi”, poi si scambiarono la buonanotte. La più triste da molti anni per quanto riguardava Vic.
Si lavò i denti con un senso di sconforto che lo faceva sentire molle. Si infilò il pigiama e la sensazione adesso era che tutto il suo corpo si stesse sciogliendo. E quando si sdraiò immaginò di allargarsi come la pastella dei pancake nella padella: tutto si era liquefatto assieme alle sue speranze e alla sua gioia.
Il Natale era morto e anche lui non si sentiva tanto bene.
Il sonno era pronto a dare sollievo a tutta quella amarezza, ma dalla finestra provenivano gli schiamazzi di un gruppo di bambini. Uno dei tanti gruppi, si immaginava, che avevano deciso di scendere in strada a spaventare Babbo Natale.
Tutte le altre notti della vigilia si sarebbe infilato sotto il piumone fino alla fronte, per timore di vedere ciò che non andava visto, mentre adesso sbirciava la finestra affacciata sulla strada: le urla si erano avvicinate ma adesso entrarono nella sua stanza anche i lampi di luce delle torce impugnate da quegli esagitati.
Chiuse gli occhi quando i rumori si furono allontanati. Fece in tempo a pensare ad Irène, che era più fortunata di lui perché non si preoccupava di niente non avendo mai creduto a Babbo Natale, e finalmente si addormentò.
Sognò molto. Luci blu abbastanza intense da poterle vedere anche con gli occhi chiusi - ma pensò anche che con gli occhi chiusi i colori non si vedono, eppure lui li vedeva, perciò allora forse si sbagliava, ma forse era una cosa che succedeva solo nei sogni, comunque era bella - il suono leggero di piccoli campanelli, una voce che sussurrava con molto energia “forza, forza, ci deve stare tutto, tutto qui, sì tutto qui e anche lì!”
Poi aprì gli occhi.
Da sotto la porta una luce blu - era sveglio? si chiese. Sì, lo era - illuminava il pavimento della sua stanza. Quel tintinnio delicato risuonava nel silenzio della notte e una voce stava ancora bisbigliando parole, qualcosa come “ecco, ben fatto! questo dovrebbe essere l’ultimo.”
Perché era così convinto che quella voce fosse sommessa e invece lui la sentiva tanto chiaramente? Era una bella domanda.
Vic si alzò, si avvicinò alla porta, non abbastanza spaventato da rinunciare ad afferrare la maniglia. E ad abbassarla e ad aprire uno spiraglio da cui osservare la situazione.
Era tutto facile come sognare. Si rendeva perfettamente conto che avrebbe dovuto avere una fifa tremenda, e che sarebbe stato più saggio nascondersi da qualche parte anziché rischiare di essere visto. Da chiunque ci fosse di là e che non era certo suo papà o sua mamma.
Invece spalancò la porta e un passo dopo l’altro fu in salotto.
“Ehi, Vic!” una voce lo salutò con un bisbiglio molto intenso.
Un tizio alto e magro e con una tuta rossa bordata di pelliccia bianca, un berretto marrone con falde pelose sulle orecchie, stava tra lui e la porta d’ingresso. Spalancata. Oltre alla fioca luce dei lampioni la notte era rischiarata da un bagliore blu che proveniva dalla coda di un furgone con le ante aperte, come se la lamiera fosse fatta di neon.
“Senti, te li abbiamo lasciati tutti” e solo in quel momento Vic si accorse, seguendo il gesto del braccio di quell’uomo, che la stanza era ricolma di pacchetti. “Gli altri non li volevano”, l’uomo fece spallucce. “E allora abbiamo pensato di lasciarli a te. Sono tutti i regali di tutti i bambini della città.”
Ovunque girasse lo sguardo Vic vedeva pile di pacchi e pacchetti, con carte di tutti i colori. Erano stati impilati con cura fino al soffitto di ogni parete utile. Dove c’era la porta del bagno, gli strati salivano intorno agli stipiti e per qualche ragione che sfidava le sue conoscenze di fisica, seguivano il bordo alto, apparentemente sospesi in aria.
“Senti, fanne quello che vuoi. Non tutto sarà di tuo gradimento, lo so. Ma che ci possiamo fare?” e l’uomo fece l’espressione con gli occhi sgranati che vorrebbe dire “mi capisci, no?”
“Ma tu chi sei?” chiese con una spavalderia che sorprese lo stesso Vic.
“Chiamami Sven, uno che consegna.”
“Babbo Natale?”
“Oh, no, Babbo Natale è Babbo Natale” e rise. “Gli dò solo una mano. Quando c’è qualche problema. Ho un furgone speciale per le consegne problematiche. Con gli elfi e tutto quanto.” E gli fece cenno di seguirlo.
Man mano che Vic si avvicinava alla porta di ingresso, la sagoma del furgone che emanava quella bella luce blu, rivelava le sue dimensioni straordinarie.
Ma per vederlo tutto, Vic dovette uscire, incurante del freddo gelido. La coda era distante dal muso l’equivalente di tre auto. O forse quattro. O sei. Difficile dirlo, avrebbe dovuto congelarsi i piedi per prendere delle misure meno approssimative.
“Bello, vero? Ce ne sta parecchia di roba. E le renne riposano, eheh.”
“Ma…”
“I tuoi regali? Sotto l’albero, come piace a te e come è giusto che sia. Dico bene?”
Vic annuì.
“Allora, un’ultima cosa, amico mio” disse Sven. “Anzi due. Ci sono scritti i nomi su tutti, ormai è un lavoro che avevamo fatto. Ma noi usiamo un inchiostro speciale, lo dico a te in confidenza. Si chiama inchiostro polare. Lo leggi solo al freddo. Più freddo fa più è nitido, chiaro? E’ un segreto che resta tra me e te, ok? Ma non ti preoccupare, la seconda cosa che voglio dirti è che domani tu non ricorderai quasi niente di questa notte. E il giorno dopo ancora meno. E il terzo giorno, beh, che ci vuoi fare, mica si può ricordare tutto, no?” e gli fece l’occhiolino con un’espressione simpatica che fece sorridere Vic.
“E allora, mio caro Vic…”
“Ma io però non…”
“Non capisci perché tutti a te, vero?”. Vic annuì.
“Non ti preoccupare. E’ una decisione presa in alto. Molto in alto. Una questione di latitudine, ci intendiamo?”. E Vic aveva inteso.
“Perciò, come stavo dicendo, buon Natale! Al prossimo anno!”
E salutandolo con la mano ben stesa, l’uomo fece un paio di passi all’indietro, poi piroettò sulle suole e si diresse al furgone.
Il bagliore blu avvolse la sagoma del mezzo che sparì, un secondo prima che solo la fredda luce dei lampioni rimanesse a contrastare il cielo nero punteggiato di stelle.
La distesa di regali era la vista più sconvolgente (e pazzesca e assurda) che si fosse fissata sulle giovani retine dei suoi occhi.
Paralizzato da tanta abbondanza, incredulo per la conversazione che aveva avuto fino a pochi secondi prima, e che gli appariva ancora molto reale, nonostante ci fossero tutti gli elementi per pensarla nata da un sogno, Vic non sapeva cosa fare. L’orologio della cucina che dalla sua posizione vedeva illuminato dal chiarore dei lampioni, gli diceva che erano le sei meno un quarto. Considerò che era sveglio. E che si sentiva sveglio. E che se fosse tornato a letto, ci sarebbero state buone possibilità - la certezza - che al suo risveglio niente di tutto ciò ci sarebbe stato ancora. La stanza sarebbe tornata vuota e il ricordo di quell’incontro sparito nel nulla (prima di quanto gli aveva detto quello Sven).
E il Natale sarebbe finito prima ancora di iniziare.
Lentamente tornò in camera per infilarsi almeno un paio di calze e una felpa. Indossò tutto con la fretta di chi ha paura che il tetto gli crolli in testa.
A salti da capra di montagna tornò in sala per sincerarsi che nel frattempo niente fosse cambiato.
E per fortuna, o perché era così che doveva andare, ogni pacchetto era lì dove qualcuno - degli elfi? - li aveva lasciati.
“E adesso?” si chiese in un sussurro. Ma una parte del suo tumultuoso cervello già pregustava ore passate a scartare e aprire…
Si chinò a sollevare un pacchetto. Era una scatola poco più grande di quella dei cereali, avvolta in una carta rossa e verde. Cercò il nome del destinatario, ma in quella luce fioca non riusciva a scorgere nessuna scritta.
Si ricordò della spiegazione di Sven.
C’era solo una cosa da fare. Uscì nel freddo di quella notte cui mancava solo la neve.
Si girò tra le mani il pacchetto, prestando la massima attenzione, come quando giocava a trovare l’oggetto nascosto tra mille altri oggetti e persone sulla pagina di uno di quei libri pensati per questo tipo di gioco.
Finché un elegante grafia corsiva perfettamente leggibile rivelò il nome scritto con inchiostro blu: Carlotta Arlotti, Via dell’Acacia 22, appartamento C.
Una bambina di terza elementare che aveva conosciuto durante una gita l’anno prima. Provò con un altro pacchetto, perfettamente cubico. La stessa grafia e lo stesso inchiostro indicavano che quel pacco era destinato a Riccardo Borghese, Via Leonardo 45, uno che aveva giocato a basket con lui (prima che Vic perdesse entusiasmo per i giochi di squadra). Ne prese un terzo, poi un quarto, su tutti il nome e l’indirizzo comparivano scritti sulla carta regalo, la stessa elaborata grafia, alcuni secondi dopo che i pochi gradi sopra lo zero di quella mattina di Natale avevano fatto raggiungere la giusta temperatura all’inchiostro polare.
Sulla soglia di casa, le gambe già pronte a correre a prendere un altro pacchetto, si bloccò spaventato da una voce alle sue spalle.
“Ehi, ma che fai?”
Si voltò ma aveva già riconosciuto chi aveva parlato.
“Ciao Irène, perché sei sveglia a quest’ora?” La bambina era in mezzo alla strada, appoggiata al suo deambulatore, un berretto di lana verde calcato fin sugli occhi e una vestaglia rossa a ripararla un po’ dal gelo.
“Potrei chiederti la stessa cosa.”
“Eh…” e adesso?
“Aspetta, mi metto la giacca e vengo lì.”
Cosa fare? Niente, cosa poteva fare se non raccontarle tutto? E cosa avrebbe potuto pensare lei se non che era matto? Perciò l’avrebbe salutato per l’ultima volta e sarebbe tornata a dormire, dopo aver chiuso per bene tutte le serrature della porta di casa.
“Allora?” cominciò a chiedere quando fu sulla soglia della casa di Vic.
“Eh, allora…”
“Ho visto che hai dei regali. Perché li porti fuori?”
“Eh, perché…”
“Vic, tutto bene? Hai freddo?”
“Senti, è successa questa cosa. Lo so che non mi crederai, ma…” e iniziò a raccontare a partire dal sogno delle luci blu.
Irène ascoltava, sgranando un po’ gli occhi, ma stranamente non lo interrompeva per chiedergli cose tipo mi stai prendendo in giro, ti pare che possa credere a queste sciocchezze, non è il caso che torni a sognare ad occhi chiusi?
“E ci sono tutti nomi, dunque.”
“Sì” le confermò Vic.
“E li hanno dati a te! Fantastico! Tanto loro mica li volevano.”
A Vic, in quel preciso momento, vennero in mente due pensieri allo stesso tempo. Due pensieri nuovi, inaspettati e fragili, come le foglie della piantina di fagiolo spuntate dal cotone bagnato che avevano in classe.
Uno riguardava quei bambini che forse, come lui, aspettavano i regali, perché magari quel giorno non erano a scuola, o perché il tatuaggio non se l’erano messo, o magari perché avevano il raffreddore e quel profumo non l’avevano inalato (non c’erano dubbi che quel profumo influenzasse le persone, compreso suo papà). Oppure perché erano di prima e non capivano i piani dei più grandi… Insomma, potevano esserci dei bambini che non erano stati coinvolti da ciò che invece aveva avuto effetto sugli altri.
L’altro pensiero riguardava proprio questi altri bambini, quelli del tatuaggio e del piano della notte della vigilia, perciò quelli delle bande schiamazzanti e dei regali comprati al supermercato. Ecco, e se non erano contenti di questi regali? E se andando a dormire si erano pentiti di aver messo in piedi una cosa così sciocca?
“Cosa stai pensando?” chiese Irène interrompendo il flusso di pensieri che però era quasi già arrivato alla logica conclusione (e dunque se all’inizio era una piantina ora era un albero su cui potevi salire sopra).
“Sto pensando che dovrei darli ad ognuno di loro questi regali.”
La bambina aveva guardato alle spalle di Vic, dentro la stanza tappezzata di pacchi.
“È una bella idea.”
“Ma sono tantissimi…”
“Cominciamo subito, allora” gli propose seria.
Vic la fissò incredulo. “Dici?”
“Ma certo e credo di sapere come riuscire a fare prima. Vuoi farlo davvero?”
Vic aveva gli occhi sgranati, il naso rosso di freddo e le dita mezze congelate: sapeva che se avesse risposto sì quella bambina non avrebbe più cambiato idea.
E rispose di sì.
“Bene, aspettami qua allora. Beh, intanto mettiti sciarpa, berretto e guanti, fa davvero un bel freddino.”
“Sì, mi viene mal di testa col freddo.”
“Mi copro anch’io le gambe, non fa bene nemmeno a me.”
Poi guardò la bambina allontanarsi col suo passo sbilenco e corse a procurarsi il necessario per stare fuori senza ammalarsi.
Ci sarebbe voluto un po’ di tempo, del resto.
Un bel po’.
Irène uscì di casa seduta su una sedia a rotelle rossa.
Si muoveva molto sicura e certo molto più veloce di quando camminava.
“Ne tengo due qui sulla coperta - indicando le sue cosce - e uno ci sta dietro.” Sul retro dello schienale c’era una rete portaoggetti e in effetti i pacchetti più sottili potevano essere infilati lì.
“Sicura?” chiese Vic per cortesia.
“Certo, ma muoviamoci, sennò viene giorno e ci scoprono. Non mi va di essere scambiata per Babbo Natale” e per la prima volta Vic la sentì ridere di gusto.
Impugnò le maniglie della carrozzina e si incamminarono svelti.
Il primo giro di consegne non diede problemi, Vic conosceva gli indirizzi e lasciare il pacchetto sulla porta di casa fu facilissimo.
Al secondo giro risolsero il problema delle recinzioni facendo cadere il pacchetto oltre il cancello. E quello dei condomini lasciando il regalo al portone di ingresso. Ci avrebbero pensato i bambini a capire. Se anche non leggevano il loro nome (non si sa mai quando la sorpresa ti lascia a bocca aperta), i bambini sanno comunque indovinare il contenuto anche solo dalla forma del pacchetto.
Al terzo giro Vic guardò l’ora in cucina ed ebbe un momento di confusione.
“Si è fermato l’orologio, fa sempre le sei meno un quarto.”
Irène si guardò intorno, alzò lo sguardo, tornò a guardare Vic.
“Il cielo è sempre uguale. Dovrebbe cominciare ad albeggiare. Ed è un’ora che andiamo avanti e indietro.”
“Come fai a…”
“So quando il tempo passa, tu no?” Vic non sapeva cosa rispondere. Ma anche l’ora sul microonde non aveva contato altri minuti da quando aveva incontrato Sven col suo furgone luminoso.
“Credo che non sia l’orologio”, disse Irène. “Mi sa che abbiamo tutto il tempo per noi.”
“Tutto il tempo…”
“Vedrai.”
E in effetti Vic vide. Vide che Irène aveva ragione, prima di tutto. Perché vide che la notte non finiva in quanto l’alba non accennava neppure ad arrivare, mentre nel frattempo i regali dentro casa un po’ alla volta lasciavano libere le pareti.
Tutti i pacchi e pacchetti furono dunque presi, anche quelli sopra lo stipite della porta, dove però c’era stato bisogno di salire sopra una sedia. Sparirono tutti, tranne quelli sotto l’albero, due pacchetti che Vic - come tutti i bambini, per l’appunto - aveva capito cosa contenessero (per sua grande gioia).
Solo quando consegnarono l’ultimo, prestando attenzione a est, poterono notare il chiarore azzurro che annunciava il nuovo giorno e che aumentava di intensità accompagnandolo nel ritorno alla loro via.
E fu così che mentre i bambini che ancora dovevano scoprire che i giochi comprati dai genitori in quel nuovo supermercato non erano grandi, colorati, solidi, belli, come se li aspettavano, due cose accaddero contemporaneamente.
Alcune grandi gru e tre squadre formate da venti operai iniziarono a smontare la grande insegna gialla con la scritta “Omegacarrello” e dopo questa le pareti e le vetrate. Già alcuni camion rossi avevano caricato le merci e le casse, gli scaffali e i carrelli, gli addobbi e le luci natalizie, ed erano partiti per chissà dove.
Prima che tutti i bambini fossero svegli e iniziassero a scoprire che dei regali erano stati lasciati fuori dalla porta di casa, del nuovo supermercato rimanevano solo lo spazio vuoto su cui era sorto e l’asfalto con le righe bianche dei parcheggi.
L’altra cosa che accadde fu non meno sorprendente.
“Ma ti piace Doctor Who?”
“No.”
“Ti va di vedere una puntata con me?”
“Certo.”
E Vic e Irène passarono le prime ore del mattino sul divano, una puntata dietro l’altra, i pacchetti ancora chiusi.
Per questi e per dormire credo proprio di avere ancora tutto il tempo, pensò Vic.
E tale era la sua felicità che non rimase dentro di lui, ma uscì e come un’onda si propagò nell’aria, abbastanza intensa da essere sentita oltre il circolo polare artico. E fu salutata da un coro di renne che svegliarono tutti coloro che avevano molte buone ragioni per farsi una bella dormita.
Il primo dell’anno Vic non sapeva esattamente cosa fare. Forse poteva proporre a Irène e a Michele di andare al cinema, ma non riusciva a concentrarsi sulla programmazione per scegliere un titolo.
Continuava a pensare a una situazione che non era sicuro di aver vissuto o di aver sognato o addirittura di aver solo visto in qualche serie tv. Di fatto non ricordava che poche sensazioni, il tono di blu che riempiva il buio della notte, poi qualcosa che lui aveva fatto oppure no, ma gli pareva di sì senza però ricordare cosa. Era stato qualcosa di bello, su questo non aveva dubbi. E in qualche modo c’entrava Irène. Gliel’avrebbe chiesto più tardi.
Nel mezzo di quello sforzo di memoria abbastanza inconcludente un fischio lo spinse a portare le mani alle orecchie.
Cassetta della posta, cassetta della posta, gli diceva una voce.
Tolse le mani e il fischio sparì. Ma tornò un secondo dopo e di nuovo si portò le mani sui padiglioni.
Cassetta della posta, cassetta della posta, solo che adesso quella voce era accompagnata dalla stessa sensazione di blu cui stava pensando poco prima.
Si alzò dal divano e guardò fuori, giusto in tempo per scorgere un bagliore bluastro svanire nella luce calante del primo pomeriggio.
Non gli restava che guardare nella cassetta della posta.
Infilata c’era una busta. La estrasse e notò che era completamente bianca. Nessun mittente, nessun destinatario, niente francobolli o altre scritte stampate.
Anche questa volta il brillante cervello di Vic mise insieme i fili di più pensieri, molto leggeri e sfuggenti e li annodò ad alcuni ricordi tornati un poco più vividi. E così intuì di cosa poteva trattarsi.
“Eh già, oggi non fa molto freddo” mormorò constatando che dalla sua bocca non si alzava alcuna nuvoletta di condensa.
Corse in casa e spalancò lo sportello del freezer. Vi appoggio la busta e dopo pochi secondi la riprese in mano, stando ben attento a non spostarsi dal riquadro della cella piena di confezioni di surgelati.
E nel girarla la sorpresa lo fece sorridere. Poi ridere. Per qualche ragione riconosceva quella grafia e quell’inchiostro blu.
“Strettamente personale: per Vittorio (Vic) Barra”.
Il foglio era piegato in tre e la lettera che conteneva recitava:
“Caro Vic,
per ringraziarti del tuo bel gesto (che tu non ricordi tanto bene, vero? ma non ti preoccupare, va bene così: l’importante che noi sappiamo che l’hai fatto) abbiamo pensato che siccome di freddo ne hai preso parecchio, avrebbe fatto piacere a te e soprattutto alle tue mucose del naso passare un po’ di tempo al caldo. Se accetterai potrai portare un amico o un’amica con te (ti suggeriamo, anche se è superfluo, una che inizia per i. Le devi molto, questo tienilo a mente). Ti passeremo a prendere e starete comodi a scaldarvi per un mese, ma sarete di nuovo a casa prima che i vostri genitori si sveglino dalla pennichella. Però poi non lamentarti se il tempo vola quando ci si diverte!
Babbo Natale e il suo team”
Il primo di gennaio Vic era seduto sul divano, la luce del pomeriggio iniziava a calare, gli pareva di aver salutato Irène da poco, ma era sicuro di averla vista la sera prima quando erano usciti in strada, attirati dai fuochi d’artificio che i vicini sparavano per festeggiare l’anno nuovo.
Fece un profondo respiro col naso, perché gli pareva che potesse entrare molta più aria di quanto era abituato a sentire passare dalle narici. La casa profumava di candele alla cannella, zucchero a velo vanigliato e arrosto. Non era abituato sentire tutti quegli odori. E forse non era nemmeno piacevole. Di certo era una cosa ben strana. Il suo naso non funzionava così.
A dire il vero tutta la faccia gli pareva leggera, tutta la testa addirittura.
E questo sì, questo era bello.
Cercò il fazzoletto in tasca, il suo inseparabile compagno dei mesi invernali.
Ma ciò che la sua mano estrasse era solo un pugnetto di sabbia finissima.